"Io, tutsi, e l’amore che riconcilia"

Jean Paul Habimana: prima il seminario poi le nozze con la ragazza hutu

Jean Paul Habimana con la moglie

Jean Paul Habimana con la moglie

Milano, 10 agosto 2019 - Jean Paul Habimana oggi insegna religione alla scuola Europa di Milano. Quando è arrivato in Italia, nel 2005, voleva farsi prete. In Ruanda gli erano rimasti la madre e i fratelli: il padre e gli uomini della sua famiglia, tutsi, erano stati uccisi dagli hutu quando lui aveva 10 anni, nello sterminio del 1994. Habimana ha deciso di raccontare per la prima volta la sua storia in pagine ancora inedite, per cui è alla ricerca di un editore, che anticipa al Giorno. È la storia di come ha imparato a perdonare e di come è arrivato a sposare una donna appartenente all’etnia che aveva ucciso suo padre.

Perché è venuto in Italia?

Volevo diventare prete, e siccome la mia diocesi in Ruanda era gemellata con quella di Reggio Calabria, il vescovo mi mandò in Italia. Era il 2005.

Poi però cambiò idea.

Lasciai il seminario dopo quattro anni, quando capii che volevo farmi una famiglia. Quindi mi iscrissi all’Istituto di scienze religiose, presi la laurea e chiesi di insegnare religione a Milano.

Perché Milano?

Cercavo disperatamente un lavoro, e su internet la diocesi di Milano fu la prima e più chiara che trovai. Scrissi una mail e mi risposero subito, mi sembrò un miracolo.

Come si trovò a Milano?

Bene, ma non avevo una casa né i soldi per i primi affitti. All’inizio un responsabile dell’Istituto trovò un prete che poteva ospitarmi in parrocchia in cambio di qualche servizio nella pastorale. Quando vidi l’elenco dei compiti gli confessai che non potevo fare tutto, perché stavo ancora studiando per la laurea specialistica. Lui mi trovò una famiglia di parrocchiani che per sei mesi mi ospitò in una casa stupenda.

Difficoltà con gli studenti?

Gli amici calabresi mi dicevano: “Tu sei nero, hai studiato in Calabria e vai a insegnare a Milano? Sei matto, non sai come trattano noi”. Quindi avevo una paura incredibile. In realtà non ho mai avuto particolari problemi.

Come è stata la sua infanzia in Ruanda?

Sono nato in una famiglia tranquilla, mio padre era commerciante, mia madre casalinga. Non eravamo ricchi ma non ci è mai mancato niente. Poi nel 1994, quando avevo 10 anni, è scoppiato il genocidio. Ho perso mio padre e tantissimi parenti. In quei tre mesi ho visto tutto, ero piccolo ma lo ricordo ancora bene.

Cosa è cambiato?

Tutto. Il villaggio è rimasto senza uomini. Casa nostra e il negozio di mio padre erano distrutti. Nei giorni successivi al genocidio i ragazzini della mia età volevano solo fare i militari, non per la carriera ma per vendicarsi. Per fortuna il Governo impose subito la riconciliazione.

È stato un genocidio in seno allo stesso popolo: alcuni hutu hanno sterminato voi tutsi.

Nel ’97, iniziando il Liceo, mi sono trovato a studiare con degli hutu: alcuni erano i figli degli assassini. Quando ho scoperto che non eravamo stati gli unici a soffrire, ho anche iniziato a perdonare. Ero diventato amico di uno di loro, durante le vacanze andavo a casa sua e vedevo sua madre sola e sofferente, perché suo marito era in carcere. Mi sembrava molto simile a mia madre: anche lei sola, ma perché vedova. Qui ho conosciuto anche una cugina del mio amico, che è diventata la mia attuale moglie.

È stata una delle cause che l'hanno spinto a lasciare il Seminario?

No. Ci eravamo frequentati e scritti durante il Liceo, ma poi ci siamo persi di vista quando sono venuto in Italia. Quando ho interrotto il Seminario la mia priorità era trovare stabilità in Italia. Con lei ho ripreso i contatti nel 2010. Ci siamo sposati tre anni dopo e nel 2014 è nato nostro figlio.

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