Cast salva-serata De Ana fischiato

Elvio

Giudici

I Vespri Siciliani di Verdi, nonostante le sue molte pagine splendide, è opera non troppo amata e poco rappresentata, anche perché la sua drammaturgia parecchio intorcinata è assai difficile da portare in scena. Si sperava molto che la Scala desse adeguata replica all’Opera di Roma: che tre anni fa, con Daniele Gatti direttore, Valentina Carrasco regista, un cast eccellente, dei Vespri diede esecuzione paradigmatica. Peccato, no. Fabio Luisi sceglie un approccio secco, iper-energico e ipercinetico, preferendo l’irruenza un po’ monotona al chiaroscuro. Scelta discutibile da vecchio Verdi, a mio avviso, quantunque portata avanti con coerenza; l’estetica musicale del Grand-Opéra, già compromessa dalla provinciale scelta della versione italiana in luogo dell’originale francese che ormai tutti fanno, non ne esce bene: e pesa assai la discutibilissima decisione di tagliare il grande balletto nonché il coro che apre l’ultimo atto, la cui atmosfera festosa evidentemente collide con la monotona banalità del funerale di terza classe cui s’informa l’intero spettacolo.

Il suo artefice, Hugo De Ana, è stato fischiato: ma temo per motivi sbagliati. Ha voluto una scenografia enorme, tutta nera e grigia (unico colore l’azzurro stinto del maglioncino di Arrigo), carri armati cannoni pistole catene spari torture assortite tra Madonne e Cristi alla colonna. Quindi gran buuu. Ma solo perché c’è l’anatema dell’ambientazione moderna in luogo di mantelli strascichi e “eleganze”: laddove da buare con forza sarebbe stata la consueta sua non-regia fatta di corse e corsette, buttarsi a terra ma soprattutto stare immobili senza alcuna definizione dei personaggi e tanto meno delle relazioni tra di loro e con l’ambiente in cui stanno. Stanno, appunto: mai che agiscano. Sicché, in ultima analisi, a tenere su la serata è il cast. Innanzitutto l’impegnatissimo coro, altrettanto superbo in Verdi dopo la superbissima prova data col Boris. Migliore di tutti, Piero Pretti: linea robusta, omogenea, squillante, capace di trovare accenti e chiaroscuri nonostante il plumbeo grigiore orchestrale. Luca Micheletti ha una bella voce chiara e incisiva, dizione e fraseggio da grande attore di prosa qual è, canta abbastanza bene ma Monforte in particolare e Verdi in generale non paiono la sua tazza di tè, ascoltandone il registro acuto sfocato e parecchio “indietro”. Marina Rebeka fraseggia poco o niente ma canta benissimo, con una linea solida e di bel colore. Tonitruante e monolitico – ma il timbro è splendido, da vero basso - il Procida di Simon Lim; ottimi i ruoli di fianco.

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