Un anno fa usciva dall’ospedale: "Ho temuto di non farcela"

Codogno, l’ex vigile Comizzoli ha dovuto combattere col virus. "L’ho sconfitto per il mio nipotino"

Antonio Comizzoli, 69 anni

Antonio Comizzoli, 69 anni

Codogno (Lodi) - Domani sarà un anno esatto dalla sua uscita dall’ospedale dopo 68 giorni di degenza, suddivisi tra il letto del nosocomio a Cremona e quello delle Figlie di San Camillo, sempre nella città cremonese, per la fase di riabilitazione, ma ancora oggi la voce è rotta dall’emozione a ricordare quei momenti così dolorosi quanto drammatici. I primi sintomi del Covid, inequivocabili, e poi il ricovero, il 27 febbraio 2020 con l’inizio di un calvario che ha lasciato segni tangibili nel suo animo. Il fisico, quello no, perchè Antonio Comizzoli, 69 anni, ex agente di Polizia locale in pensione dal 2018 dopo 40 anni di servizio, è decisamente un “ironman“: già nel 2013 aveva “sconfitto“ una forma di meningite ed era uscito dal coma, mentre ora ha dato una spallata al Covid che lo ha “aggredito“ proprio in quei giorni quando fu scoperto il paziente uno. Lo ha combattuto dando ragione al nipotino che credeva che il nonno fosse all’ "ospedale per uccidere il virus". E così è stato, mantenendo la parola al piccolo che lo crede, ancora di più, un “super eroe“.

Come sono stati quei giorni drammatici?

"Avevo un po’ di febbre e facevo fatica a respirare. Classici sintomi che la mia dottoressa ha subito diagnosticato. Quel 27 febbraio non lo dimenticherò mai: alle 15 ero già a Cremona e, dopo gli esami di rito e la sentenza della polmonite bilaterale, mi hanno ricoverato".

Come è trascorsa la degenza in ospedale?

"Ho dovuto tenere la “maschera“ Cpap per essere ventilato continuamente. Giorno e notte. Solo per bere lo toglievo, ma mi sembrava di annaspare per cercare l’aria. Grazie al cielo, non sono stato intubato. Ma davanti a me ho visto persone morire. La prima è stata una donna: ho visto i sanitari entrare in fretta nella stanza e cercare di rianimarla, ma purtroppo inutilmente. E’ stato drammatico".

Quale il momento più duro?

"Quando calava la notte, speravo che arrivasse prima possibile la mattina per rivedere il sole. Era il segno che anche un altro giorno era passato ed ero ancora lì. Sinceramente ho temuto anche io di non farcela. La lontananza dai propri cari è stato un ulteriore elemento di sofferenza. Nessuno poteva ovviamente venire a visitarmi e questo è stato un elemento devastante. Mia moglie era casa e l’ho sentita pochissime volte e non l’ho mai vista fino a quando sono tornato a casa. Mio figlio è venuto a portarmi i vestiti quando ero al San Camillo. Sono tornato dimagrito di venti chili. Quando ho fatto le scale di casa per la prima volta dopo settimane, pensavo di scalare l’Everest".

Oggi chi sente di dover ringraziare?

"Ho pregato molto in quei giorni, ma devo dire grazie anche a medici e personale infermieristico dei due ospedali. Non so i nomi e non ricordo nemmeno i volti. Quando ero al San Camillo giravo con la maglietta, che ora tengo come ricordo, con la scritta “Mai mollare, la vità è troppo importante“.