"Mi sono trovata davanti a un bivio: o abbandonare la scuola, o continuare a stare a fianco dei miei ragazzi. Alla fine ho scelto la seconda strada". La professoressa varesina Sara Campiglio, accoltellata alla schiena lo scorso febbraio da un suo studente, ha commosso la platea riunita a Roma per il convegno delle Acli, l'altro ieri, quando ha fatto capire che per lei l'insegnamento è una missione che intende continuare anche - sarebbe suonato incredibile dire una cosa del genere trent'anni fa riferendosi a un'insegnante - a rischio della vita.
Altro caso, stessa professione. Il docente di Abbiategrasso Rocco Latrecchiana colpito con un pugno da un allievo 16enne. "Non so se tornerò in cattedra..." è stata la sua reazione. Scelte entrambe condivisibili, continuare o gettare la spugna, perché c'è una dimensione personale, la sensibilità di fronte a una violenza di cui si è vittime, che non si discute. Quel che di cui si dovrebbe invece discutere, e ovviamente non lo si fa quasi mai, è che cosa voglia dire fare l'insegnante oggi in Italia. E cioè, una roulette russa.
Perché insegnare a Trento è diverso dal farlo a Baranzate. Provare a spiegare Dante al liceo classico Manzoni non è la stessa cosa che farlo in un istituto professionale di Corsico. E quando dopo trent'anni di carriera non arrivi a prendere duemila euro di stipendio, devi davvero avere il senso della "missione di vita" che contraddistingue la prof Campiglio per continuare a correggere compiti, spiegare a una classe svogliata le guerre d'indipendenza, fare lo psicologo e il sociologo per capire, comprendere, perdonare, giustificare, promuovere. E quando non funziona, rimediare un pugno o una coltellata.