Viviamo in un’epoca strana, a volte ai limiti del surreale. È come se tutto il male e le preoccupazioni che ci circondando, tra crisi ambientali e crisi economiche, guerre in corso e guerre evocate, finiscano per farci perdere la bussola nelle piccole cose, generando cortocircuiti fino a poco fa impensabili.
Ad esempio, se un gruppo di estremisti apertamente razzisti convoca un incontro in cui si teorizza la deportazione fuori dall’Europa di centinaia di migliaia di persone, il famigerato Remigration Summit, si invoca la libertà di parola e si trova pure una spazio pubblico dove organizzarlo. Se la dipendente di un teatro urla “Palestina libera”, scatta il licenziamento in tronco.
Un concetto di libertà di parola a targhe alterne, verrebbe da dire, se non fosse che le targhe alterne almeno sono un provvedimento equo mentre in questo caso, comunque la si pensi sull’immigrazione e sulla questione mediorientale, è evidente la sproporzione – e il pericolo latente – tra i due episodi. Diciamo che c’è libertà di parola a numero chiuso, probabilmente così è più corretto.