
Ferdinando Bruni
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Duemila anni di Edipo. Quasi tre. Giusto per dare la dimensione del mito all’interno del pensiero occidentale. Eredità complessa. Che diviene chiave di lettura della nuova produzione dell’Elfo Puccini. Da martedì per un mese in Sala Shakespeare, "Edipo re" è firmato alla regia da Francesco Frongia e Ferdinando Bruni, anche in scena con Edoardo Barbone, Mauro Lamantia e Valentino Mannias. Costumi di Antonio Marras. Theatral chic. Per una favola nera. Al maschile. Di simboli e di maschere.
Bruni, in che direzione avete riletto Edipo?
"Indagando il suo essere una storia ripresa da millenni. Possiede una struttura da favola archetipa: con il bimbo abbandonato nel bosco che invece di essere divorato dalle fiere diventa un principe, sconfigge il mostro, sposa una bella regina eccetera… Solo che al suo interno evidentemente c’è una materia che rimanda al nostro inconscio collettiva e che negli anni ha ispirato una staffetta di autori. Voci diverse, distanti. Che noi utilizziamo per ricostruire il senso della vicenda. A volte in maniera molto affascinante".
Cosa intende?
"Ci sono battute che iniziano da Sofocle e si concludono con parole scritte negli Anni 50. Un filo lungo 2500 anni".
Come avete lavorato?
"Addentrandoci in questa sorta di esperimento drammaturgico, non così usuale per noi, visto che lavoriamo soprattutto su autori contemporanei che spesso traduciamo per primi in Italia. Abbiamo sempre affrontato anche la tragedia, ma con uno sguardo più classico. Stavolta invece ci siamo dati il tempo di muoverci in un orizzonte diverso. C’è un chiaro ritorno al rito: la recitazione si distacca dal naturalismo, si predilige la funzione al profilo psicologico, con l’uso delle maschere. E poi abbiamo volontariamente ignorato Freud".
Quasi una provocazione.
"Ho sempre trovato poco sottile la sua visione. Anche se la psicanalisi torna nel percorso alle origini compiuto da questo Edipo clochard, che quando si addormenta inizia un viaggio fra incubo e sogno. Dove si muove in cerca di quella frattura da lui stesso determinata. Indagine psicologica che sembra un thriller".
Che momento è per l’Elfo?
"Con la riapertura ci domandavamo se la gente sarebbe tornata. E invece ora vedo molto entusiasmo nel venire a teatro, nel fare comunità. Gli spettacoli stanno andando bene e anche la serata per l’Ucraina ha avuto la sala piena".
Che ruolo dovete avere secondo lei all’interno del sistema teatrale milanese?
"Abbiamo una vocazione pubblica, le amministrazioni ci danno ogni anno una cifra importante perché noi la si trasformi in cultura, proposte, lavoro. Una responsabilità che sentiamo forte. A livello artistico, credo nell’importanza di essere nel presente. C’è una tendenza a teatro di fermarsi al momento di maggiore splendore, scoprendosi incapaci di leggere la contemporaneità. Una cosa che mi spaventa molto".