
Emergenza Coronavirus
«Se l’effetto Covid dovesse determinare per tre mesi un costante incremento, dell’ordine del 50%, della probabilità di morte in corrispondenza delle età più anziane, per il 2020 risulterebbero 710 mila morti su base annua (73 mila in più). In parallelo, la speranza di vita alla nascita scenderebbe a 82,11 anni (-0,87) e quella al 65esimo compleanno si ridurrebbe da 20,89 a 20,02», dice il rapporto annuale dell’Istat, presentato ieri alla Camera. Questo effetto sarà più marcato al Nord-ovest, dove si passerebbe da una speranza di vita alla nascita di quasi 84 anni a una di circa 82, con quasi 2 anni in meno. «In alcune zone più colpite, come alcune province della Lombardia, si torna quindi a livelli di dieci, addirittura di venti anni fa», ha detto il presidente Istat Gian Carlo Blangiardo. Secondo l’Istat, la mortalità record a marzo si è raggiunta a Bergamo (571%), Cremona (401%), Lodi (377%), Brescia (292%) e Piacenza (271%)
Castelverde (Cremona), 4 luglio 2020 - «Nel vuoto creato dall’emergenza Covid sono state le iniziative dei singoli a salvarci da un disastro anche peggiore". Pietro Signorini è dal 2004 responsabile medico dell’Opera Pia Ss. Redentore di Castelverde, a una a manciata di chilometri da Cremona, una onlus che è sia una Rsa (a pieno regime accoglie 140 anziani, una prevalenza di ospiti sopra i 90 anni) sia una Rsd che ospita 60 disabili. Ha vissuto la pandemia da medico e poi anche da malato. L’ha vissuta come una straordinaria, per quanto drammatica, avventura umana.
Dottor Signorini, come è iniziata? "Il 21 febbraio abbiamo inviato un paziente in ospedale per un problema neurologico. Gli operatori del 118 si sono presentati con le mascherine e le hanno offerte. Lunedì 24 febbraio il presidente Walter Montini ha riunito l’Arsac, l’Associazione della Rsa della provincia di Cremona. La Regione aveva dato delle limitazioni per le visite dei parenti: un’ora, non più di una o due persone.Tutte le nostre Rsa hanno vietato gli accessi".
Reazioni degli ospiti e dei loro familiari? "Fra i parenti qualcuno ha compreso, qualcuno si è lamentato, qualcun altro se l’è presa con noi. Dei nostri ospiti c’è chi è seriamente compromesso sul piano relazionale e chi meno. Quelli ancora presenti si chiedevano perché non ricevevano la visita dei loro cari, perché gli operatori usavano camici monouso e dispositivi di protezione. C’era chi capiva e chi invece presentava criticità".
E il personale? "Cercavamo di limitare al massimo il disagio degli ospiti. Qualche parola, una interazione, un conforto in più. Nella Valle Padana c’è un profondo rispetto dell’anziano. In una simile emergenza i nostri operatori, giovani e meno giovani, hanno capito gli anziani. Fra i nostri operatori, circa 150, per la maggior parte donne, ci sono romeni, albanesi, moldavi, ucraini, senegalesi, ivoriani, nigeriani, marocchini tunisini, algerini. Li ho visti accomunati a quelli delle nostre parti dal culto dell’anziano al di là delle etnie e delle religioni. Tutti hanno avuto la capacità di donarsi".
Quando ha scoperto di essere rimasto contagiato? "Tutti i giorni visitavo circa trentacinque persone. Il 14 marzo, un sabato, mi sono svegliato alle sei del mattino con 37,5 di febbre. È salita leggermente, accompagnata da un po’ di tosse. Mi sono curato in casa per tre settimane. Mi arrivavano notizie terribili, come quella del mio collega Alberto Omo, morto il 4 aprile. Ogni sera mi addormentavo pensando ‘Domani ci sarò ancora?’. Ho fatto tre tamponi, tutti negativi. Il 21 maggio il prelievo sierologico è stato positivo. Quarto tampone: negativo. Avevo contratto il virus, fatto una polmonite non gravissima, sviluppato gli anticorpi. Ero guarito".
Cos’è mancato come intervento pubblico? "Le istituzioni, la Regione, le Ats, le Asst, hanno fatto quello che potevano, in assenza di una linea guida netta, inequivocabile, scientificamente accreditata. Sono mancate le idee chiare, le linee guida che sarebbero dovute uscire dal mondo accademico e scientifico, applicabili su come affrontare un virus sconosciuto. Invece abbiamo conosciuto il virus in base agli effetti che produceva sui pazienti infettati, regolandoci poi sulle terapie e i risultati conseguenti".
Cosa ci ha salvato da esiti anche peggiori della pandemia? "Ci hanno salvato l’immaginazione, per così dire, l’intuizione, il coraggio, dei numerosi medici, direttori di unità operative, clinici, ricercatori universitari, che hanno applicato per la prima volta certi protocolli, come per il plasma donato da pazienti guariti e infuso nei malati".
Il problema più serio? "Le mascherine. Non si trovavano. Era stato deciso che fosse la Protezione civile a gestirle e ad assegnarle. L’Arsac di Cremona, con altri enti sul territorio, come l’Ordine dei medici e degli infermieri, è riuscita a recuperarne e a distribuirle alle strutture in tempi brevi".
Che percentuale di mortalità c’è stata nella sua struttura? "I decessi sono stati il 25 per cento. Abbiamo iniziato a testare gli ospiti e i dipendenti con i tamponi il 31 marzo".