"Quelle promesse verdi tradite. Già nel 1989". L'articolo di David Sassoli su Il Giorno

Cronaca della battaglia contro lo smog e delle trattative senza lieto fine tra Paesi del Nord e del Sud

David Sassoli

David Sassoli

David Sassoli, nato a Firenze nel 1956, figlio di Domenico Sassoli, giornalista e intellettuale di cultura cattolica, comincia la sua carriera giornalistica tra giornali locali e agenzie di stampa, fino ad arrivare all’Asca. Proprio quando collabora con l’agenzia cattolica, è testimone di un incontro a Parigi destinato a suscitare clamore, tra l’allora ministro socialista Gianni De Michelis e il “rifugiato politico“ di Potere Operaio, Oreste Scalzone. Nel 1985 incomincia a collaborare con la redazione romana del quotidiano “ Il Giorno“, dove per sette anni segue i principali avvenimenti politici e di cronaca. Durante questo periodo è testimone diretto di alcuni eventi storici fondamentali, come la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Gigi Riva, altro storico giornalista della nostra testata, a lungo inviato speciale nell’ex Jugoslavia e in Medioriente rispettivamente per il Giorno e l’Espresso, ricordando David Sassoli ha detto che «resterà sempre, per me, il compagno di scrivania al “Giorno”, redazione romana, fine Anni Ottanta, quando entrambi eravamo poco più che ragazzi, con l’esuberanza, i sogni di quella stagione e una passione sconfinata per la professione che ci eravamo scelti». Sassoli amava molto la cronaca, era felice, ricordano i colleghi de Il Giorno, «quando poteva raccontare i fatti della vita». La sua carriera come giornalista in tv ha inizio nel 1992, in Rai, quella politica con le elezioni del Parlamento europeo del 6 e 7 giugno 2009.

L'articolo di David Sassoli
L'articolo di David Sassoli

Penalty”, addio. I crociati dell’ozono non sono riusciti ad imporre la logica delle sanzioni agli Stati che squarciano l’atmosfera. Che continuano, nonostante gli appelli, le promesse, i testi sacri delle convenzioni internazionali, a far finta di niente. Il summit olandese si è concluso con una chiusura a riccio da parte dei Paesi industrializzati. Ancora una volta, Nord contro Sud. Niente sanzioni e niente Agenzia internazionale per il controllo dell’atmosfera svincolata dalle Nazioni unite. Lo dice il testo firmato da 24 rappresentanti di governo presenti a l’Aia, Italia compresa. Non si tratta di un protocollo d’intesa ma di una semplice dichiarazione d’intento. Nel gergo della diplomazia, le due espressioni sono molto differenti. Indicano volontà diverse. Ciò significa, ad esempio, che questo testo avrà uno scarso valore alla prossima conferenza mondiale che si svolgerà ad Helsinki nel maggio prossimo. Le armi della diplomazia, dunque, sono state sottili, raffinate, in grado di aggiustare il tiro ad un summit nato male, organizzato peggio, e che ha cercato di consacrare le leadership di alcuni Paesi europei - Francia in testa - nella battaglia ecologica. La presenza di Francois Mitterrand , accanto al premier Michel Rocard, è stata giudicata eloquente. Provocatoria da parte del governo britannico. Anche l’amministrazione statunitense ha fatto sapere di essere risentita per il mancato invito. La giustificazione degli organizzatori è sembrata imbarazzante: il cambio della guardia alla Casa Bianca non avrebbe consentito di avviare i giusti contatti per coinvolgere gli Usa. Paradossale? Non v’è dubbio.

La mancanza di una azione diplomatica efficace, infatti, riporta direttamente alle conclusioni del summit. Come pretendevano gli organizzatori della conferenza di fissare i termini di sanzioni che altri avrebbero dovuto pagare? I Paesi industrializzati più degli altri. Il comportamento del Giappone - unico tra i tre colossi ad essere stato invitato all’Aia e insieme agli Usa fra i maggiori produttori di clorofluorococarburi - si è rivelato durissimo: no, ad una agenzia internazionale svincolata dall’Onu; no a decidere autonomamente il criterio delle sanzioni. Di contro, i Paesi poveri. Erano presenti, fra gli altri, Mohammad Mubarak, presidente dell’Egitto, il re hascemita di Giordania, Hussein, il presidente del Senegal, Abdou Diouf. Per loro, la battaglia ecologica si vince imponendo un controllo rigido, con un’istituzione internazionale in grado di determinare il livello degli interventi. Soprattutto, con un impegno del Nord nel sostenere la riconversione industriale dei Paesi in via di sviluppo. Non inquinare, d’altronde, costa molto.

E il trasferimento delle risorse è essenziale per un efficiente governo mondiale della natura. Ma in che misura aiutare il Terzo e Quarto mondo a coniugare sviluppo e protezione ambientale? Le risposte ci consegnano le conclusioni di questa singolare conferenza. E anche un piccolo “giallo”. Nel testo conclusivo in lingua inglese, si parla di “assistenza compensativa”; in quello in lingua francese di un aiuto “a titolo di compensazione”. Si tratta di strade molto diverse: la prima implica un coinvolgimento della comunità internazionale nelle scelte dei singoli Paesi; l’altra, di un sovvenzionamento “tout-court” agli interventi per ridurre il livello di inquinamento. Una distrazione nella traduzione? Ma come ci si avvia all’appuntamento di Helsinki? Riuscirà la comunità internazionale ad introdurre vincoli più severi per fronteggiare il disastro ecologico? Giorgio Ruffolo, ministro del’Ambiente, è “moderatamente ottimista”. “Noi dobbiamo cercare di cogliere tutto quello che di buono si sta sviluppando. Anche quello che è emerso in questa conferenza. D’altronde la proposta di un’Agenzia internazionale dev’essere pensata meglio: bisogna sapere cosa deve fare, di quali strumenti può disporre.