I Police (squilibrati) di Stewart Copeland: con l’orchestra rilegge l’epopea di “Roxanne”

Il batterista della Virginia si esibirà lunedì all’Anfiteatro del Vittoriale con un progetto orchestrale. Nessuna reunion, per ora: "La scelta di separarci quando eravamo al top ha alimentato il mito"

Il batterista ex Police, Stewart Copeland

Il batterista ex Police, Stewart Copeland

Gardone Riviera (Brescia) – “Esibirmi a casa di D’Annunzio, il poeta-soldato? Potrei omaggiarlo declamando alcuni suoi versi col moschetto in pugno" scherza “Everybody stares: The Police inside out” parlando di Police Deranged for Orchestra, lo spettacolo con cui lunedì all’Anfiteatro del Vittoriale rilegge a suo modo l’epopea di “Roxanne” per il popolo di “Tener-a-mente”. "Sono stato sul Garda giusto un anno fa" ricorda. "Mi trovavo sul Lago Maggiore ad allestire “The witches seed”, la mia opera sulle streghe della Val d’Ossola con Irene Grandi e, siccome erano i giorni del mio settantesimo compleanno, ho pensato di staccare brevemente visitando Brescia e dintorni".

Stavolta il batterista della Virginia ha preferito festeggiare la ricorrenza (il 16 luglio) suonando in Valsugana, nell’attesa di riaffacciarsi sul lago con questo progetto orchestrale, appena pubblicato su disco, che ad ottobre sarà accompagnato in libreria dal volume autobiografico “Stewart Copeland’s Police Diaries 1976-9”.

Stewart, perché questi Police per orchestra sono “deranged”, squilibrati?

"Perché ho dovuto destrutturare le canzoni per adattarle alla narrazione di “Everybody stares: The Police inside out" il documentario sulla band realizzato coi filmati amatoriali che avevo girato qua e là per il mondo che ho presentato al Sundance Festival".

Formidabili quegli anni.

"Forse lei non ricorda dove si trovava il 25 settembre 1976, ma io sì. Ero un batterista capellone in tour nel Regno Unito con la band prog-rock dei Curved Air di passaggio quella sera a Newcastle. Fu lì che assistetti alle prodezze di una formazione locale, i Last Exit. A colpirmi fu soprattutto il bassista, che durante la festa seguita al concerto convinsi a trasferirsi a Londra per mettere su assieme un gruppo punk. Si faceva chiamare Sting".

Cosa ha fatto funzionare i Police?

"Probabilmente il fatto che fossimo uno l’opposto dall’altro. La frizione dei caratteri alimentava fra noi una tensione continua producendo molto “sturm und drang“".

Ai tempi di “Synchronicity” eravate i numero uno al mondo.

"Le circostanze giocavano a nostro favore, i Rolling Stones stavano attraversando un momento critico e il grande successo degli U2 non era ancora arrivato. Ci infilammo nel piccolo slot che avevamo davanti. Intendiamoci, dalla nostra avevamo le fantastiche canzoni di un certo Matthew Gordon Sumner (Sting - ndr). E non è poco. Anche se ad alimentare l’allure, credo, sia stata pure la scelta di separarci nel momento di massimo successo. Quando eravamo ancora in ascesa".

Nel 2007 vi siete ritrovati tutti e tre sullo stesso palco, ma senza la magia degli anni Ottanta. Sting ha definito il reunion tour “un esercizio di nostalgia” (anche se molto ben remunerato visti gli oltre 360 milioni di dollari incassati).

"Per vent’anni ce ne siamo andati in direzioni diverse e quindi non è stato facile ritrovare quel senso di unità e compattezza che caratterizzava la nostra musica. Forse solo nel concerto di Torino ci siamo avvicinati allo spirito di un tempo, quando oltre sessantamila fans entusiasti del vecchio Stadio delle Alpi fecero sì che la diga fra noi crollasse. Ricordo che la mattina dopo eravamo ancora lì davanti ai nostri caffè ad abbracciarci. Ecco perché l’avventura di Torino occupa un capitolo intero del mio libro".