Agnelli, signore delle pentole da Lallio a Masterchef: "I grandi cuochi usano l'alluminio"

Parla l'imprenditore dell'azienda che ha 111 anni di storia e fattura 150 milioni di euro ogni anno nel business del metallo

Paolo Agnelli

Paolo Agnelli

Lallio (Bergamo), 28 ottobre 2018 - Lo chiamano “il signore delle pentole” perché fa un milione di pentole all’anno, perché delle pentole (quelle professionali, di alta gamma) ha il 75% di quota di mercato, perché con le pentole, grazie a Masterchef e ad altri talent show culinari, si è fatto conoscere da tutti, perché i più grandi cuochi ai fornelli utilizzano i suoi prodotti, ma pentole e padelle rappresentano solo il 12 per cento del fatturato complessivo del suo gruppo. Paolo Agnelli, 67 anni, imprenditore bergamasco di quarta generazione («metto nel conto anche mio bisnonno che aveva due ristoranti») è presidente di «Alluminio Agnelli», gruppo fondato nel 1907 che comprende 13 aziende, 350 dipendenti, 150 milioni di fatturato aggregato. A Gordona, in Valchiavenna, la sua azienda produce ogni giorno 100 tonnellate di profilati di alluminio e da sola fa il 70 per cento del fatturato. Poi ci sono quelle che fanno serramenti, intelaiature per auto, materiali per il settore ferroviario, diversi componenti industriali. Pentole, dunque, ma non solo. Agnelli ha già il suo bel daffare, ma per non farsi mancare niente da sei anni è anche presidente di Confimi Industria, l’associazione che rappresenta la manifattura privata italiana (31mila imprese, 440mila dipendenti, 71 miliardi di fatturato) e che chiede al governo di creare un ministero per le Pmi.

Presidente Agnelli, partiamo dal nome. Le ha creato qualche imbarazzo?

«Guardi, con una battuta una volta ho detto che quelli di Torino sono i nostri parenti poveri. No, nessun imbarazzo, solo qualche simpatico fraintendimento alimentato anche da me per scherzare. Ma quella volta che alla reception di un albergo mi hanno chiesto: ma lei è Agnelli, quello delle pentole?, ho capito che ce l’avevo fatta».

La sua notorietà è dovuta soprattutto alle frequenti apparizioni televisive delle sue pentole nei famosi talent show?

«Fra le giovani generazioni sicuramente sì, ma i nostri 111 anni di storia ci avevano già dato una fama consolidata grazie alla qualità dei nostri prodotti».

È tornata la passione per la cucina…

«Non si parla d’altro. C’è una folla di appassionati, gente competente che ai fornelli vuole avere gli strumenti migliori per cucinare al meglio, per rispettare il cibo ed esaltare i sapori. Ecco, i nostri clienti sono questi. È un po’ come i cicloamatori che hanno biciclette più sofisticate dei professionisti».

Tutti i più grandi chef utilizzano pentole in alluminio?

«Da sempre. Non lo hanno mai abbandonato».

Quali sono i pregi maggiori di questo metallo?

«La resistenza, la leggerezza, la duttilità. L’alluminio è leggero, costa poco e diffonde bene la temperatura. La cottura a regola d’arte si fa con l’alluminio».

E quelli che usano l’acciaio?

«Sono quelli che non sanno cucinare, quelli che si specchiano nelle pentole. È una moda snob degli anni Sessanta che arrivava dagli Stati Uniti e dalla Germania, due Paesi che in fatto di cucina valgono davvero poco… Tecnicamente l’alluminio è molto superiore all’acciaio, tutto l’alluminio, non solo quello Agnelli».

Da più di un secolo lavorate con l’alluminio. Com’è cominciato?

«Mio nonno Baldassare aveva fatto un corso da orafo, cesellatore. Quando aveva vent’anni lo mandarono a far pratica, oggi diremmo uno stage, in Montenegro per imparare i disegni che arrivavano dall’Islam. Là scopre questo particolare metallo, mai visto prima, e comincia a lavorarlo. Nel 1905 torna a casa e lo propone alla Pirelli che ne resta incantata, lo assume subito e gli fa costruire tubi in alluminio. Arriva la prima guerra mondiale e il sequestro delle pentole in rame per la patria. Lì mio nonno ha l’intuizione di farle in alluminio, che è un ottimo conduttore e a differenza del rame non necessita di alcuna manutenzione. Si fa su le maniche e si mette in proprio. Comincia la storia del nostro gruppo. Il vero re dell’alluminio è stato lui».

Pentole e padelle si vendono bene anche online?

«Molto bene. Quelli di Amazon sono venuti da noi due anni fa, incuriositi della pentola d’oro. Sono stati molto professionali, hanno mandato i loro tecnici, hanno voluto sapere tutto e di più, hanno visionato con cura la lavorazione. Il primo anno abbiamo fatto 600mila euro, il secondo già un milione».

Cosa fate per la sostenibilità?

«Siamo indipendenti dalle multinazionali per l’approvvigionamento perché ricicliamo il 90 per cento dell’alluminio, acquistando rottami, dimezzando così le emissioni di Co2 e risparmiando il 95 per cento di energia elettrica rispetto all’estrazione da miniera di bauxite. Per questo credo che meriteremmo di avere degli incentivi ma a Roma, nei vari Ministeri non ci sentono, non capiscono… Ci riproveremo».

Investimenti alle porte?

«Le imprese come la nostra vorrebbero tornare a investire ma le tasse incidono per il 65,5 per cento degli oneri totali, la cosa più scandalosa è l’indeducibilità di parte degli interessi sostenuti per gli investimenti sui quali grava ancora l’Irap. Mi aspetto che lo Stato tassi gli utili, non il lavoro. La politica deve capire le nostre esigenze. Non possono parlare di crescita e lavoro, incoraggiarci a fare investimenti e poi quando io investo mi ammazzi di tasse. È demenziale tutto questo. È un disincentivo a investire, non un incentivo».

Non è così dappertutto?

«Assolutamente no. Pensi solo alla Cina. Lì se apri cinque linee di produzione e vai a chiedere 50 milioni di dollari il governo te li dà perché tu imprenditore ti impegni ad assumere mille persone ma su questi soldi non paghi gli interessi passivi e anzi ti danno lo 0,1 per cento a te, un piccolo interesse positivo come segno di incoraggiamento a fare nuovi impianti e a dar lavoro. Un abisso rispetto a noi. Come facciamo a competere ?».

Il ricambio generazionale la preoccupa?

«Per nulla. Ho due figli io e uno mio fratello, sono tre ragazzi molto in gamba già inseriti in azienda con ruoli diversi. Uno dei miei due è ingegnere ed è di una severità impressionante coi numeri. Io sono di una generazione che va un po’ a fiuto, dai facciamo questa produzione, no facciamo quest’altra. Lui no, mi smonta i progetti, mi dice guarda che qui i conti non tornano. Fanno così perché sono figli della crisi. Sono prudenti, ma forse è meglio così, sono più tranquillo per il futuro».