Caso Yara, il magistrato che non si arrende: 6 anni a rincorrere il killer della 13enne

Letizia Ruggeri, ritratto di un mastino. Fra moto, musica punk e karate di GABRIELE MORONI

La pm Letizia Ruggeri

La pm Letizia Ruggeri

Bergamo, 15 maggio 2016 - Tanto  per cominciare è cintura nera di karate, abituata a combattere, a non tirarsi indietro. Cinquant’anni, milanese, il sostituto procuratore Letizia Ruggeri, prima della toga, ha indossato la divisa della polizia. È approdata Bergamo, dove è il terzo magistrato in ordine di anzianità, dopo avere prestato servizio alla Procura di Agrigento. Appassionata di musica, suona la chitarra classica e ha un passato in un gruppo punk. Sciatrice provetta, è abituata a trionfare nelle gare riservate a magistrati e avvocati. Ama le arrampicate e le moto: all’udienza per l’archiviazione del fascicolo a carico del marocchino Mohammed Fikri si presentò in sella a una Honda, in tenuta da centauro. 

Era di turno, quel venerdì 26 novembre del 2010, quando ricevette una telefonata dai carabinieri di Ponte San Pietro: a Brembate di Sopra è scomparsa una ragazzina, tredici anni, si chiama Yara Gambirasio. Gli inizi furono difficili. Il rapporto, dialettico e spesso conflittuale, fra carabinieri e polizia. Una indagine che cresceva su se stessa, con profusione di uomini, mezzi, risorse anche economiche, senza produrre risultati. L’assedio dei media, il clamore. Fioccarono le critiche. Il pm era andato in ferie per il ponte dell’Immacolata, nel pieno delle ricerche. Aveva abbandonato troppo presto la pista Fikri (ne era scaturita una guerra di posizione con il gip Ezia Maccora) e disposto troppo in fretta il dissequestro del campo di Chignolo d’Isola dove era stato trovato il corpo di Yara. Il leghista Daniele Belotti, all’epoca consigliere regionale, promosse una petizione perché l’incarico a Ruggeri venisse revocato o le fosse affiancato un collega «di provata esperienza». Lei replicò con una querela, poi archiviata. Capelli ricci, occhi scuri. Un tipo tosto, che sembra fare di tutto per apparire aggressiva. Eppure è capace di timidezze inattese, di imprevedibili dolcezze. Il giorno del fermo di Massimo Bossetti chiamò la madre di Yara per avvertirla. Lo aveva promesso a Maura. Confessò che le era venuto un po’ di magone sentendo dall’altra parte del filo i ringraziamenti di una mamma che aveva perduto la figlia. Perché anche Letizia Ruggeri ha una figlia, una bambina che è il suo tutto.

La folla incominciò ad applaudirla all’uscita dalla caserma di Bergamo. Rispose con un sorriso subito rientrato, fra sorpreso e schivo, soprattutto liberatorio, al termine di una indagine immane. Iniziava la rivincita. Il giorno dopo un cartello sulla porta del suo ufficio dissuadeva i giornalisti dalle visite. Arrivavano fiori senza mittente, telefonate, mail di felicitazioni. C’era stato un pensiero anche per l’uomo in carcere, padre di tre figli. «Ho provato amarezza per lui, vedendolo in silenzio davanti a una situazione sconcertante. Dentro di me mi veniva soprattutto una domanda: ma perché l’hai fatto? Hai una bella famiglia, un lavoro, una casa. Cosa ti è venuto in mente?».

Al processo è stato scontro, a volte fino alla bagarre, con i difensori, Paolo Camporini e Claudio Salvagni, a loro volta decisi a non arretrare di un palmo. Il pubblico ministero è andato all’attacco frontale dei loro consulenti. A uno ha citato come titolo di studio il diploma di ragioniere. Al medico legale, dopo avere chiesto quali fossero le «sue reali competenze» nel lavoro per l’Asl di Roma e se fosse titolare di cattedra, ha sventolato i fogli di un verbale della commissione antimafia che avanzava critiche su un esame autoptico. Per il genetista ha coniato la definizione «un certo strabismo interpretativo». E ogni volta, in aula, sono volati fra le parti colpi di sciabola. E di karate.

di GABRIELE MORONI