Il disastro del treno delle dattilografe: 17 morti e 115 feriti

Era la vigilia dell’Epifania e il Diretto 341 arrivava a tutta velocità da Lecco, da dove era partito alle 7.10 caricando stazione dopo stazione operai, studenti, impiegati, commessi viaggiatori

La pagina che all'epoca Il Giorno dedicò alla sciagura

La pagina che all'epoca Il Giorno dedicò alla sciagura

Monza, 30 aprile 2017 - Quella mattina la Brianza era avvolta da una impenetrabile coltre di nebbia. Era la vigilia dell’Epifania del 1960 e il Diretto 341 arrivava a tutta velocità da Lecco, da dove era partito alle 7.10 caricando stazione dopo stazione operai, studenti, impiegati, commessi viaggiatori. E dattilografe - tantissime - tanto da meritare a quel convoglio l’appellativo di “treno delle dattilografe”.

A Monza, il treno avrebbe dovuto rallentare a 10 chilometri orari e imboccare un binario di deviazione all’altezza di un cavalcavia dov’erano in corso dei lavori. Quel giorno però cera troppa nebbia e alle 8.05 il treno arrivò sul ponte a 93 chilometri orari. E deragliò. La frenata disperata del macchinista impresse una scossa alle undici vetture del convoglio. Il binario si inclinò e dal ponte caddero due carrozze, mentre i primi quattro vagoni uscirono dai binari e si abbatterono sul fianco. Il vagone di testa si sganciò andando a sfondare le pareti di un lanificio che sorgeva a ridosso della strada ferrata. “Una mano gigantesca afferrò il treno e lo scagliò lontano” titolò “Il Giorno”. Diciassette morti. Centoquindici feriti. La terribile conta del disastro sconvolse l’Italia. L’arcivescovo di Milano, il futuro papa Montini, arrivò sul luogo della tragedia meno di tre quarti dora più tardi. Ai funerali in Duomo parteciparono in migliaia.

Voci dalla tragedia

Ripubblichiamo un articolo pubblicato sul Giorno del 13/2/2006

Oggi pochi ricordano quella tragedia. Federico Gagliardi, invece, sì. Perché il signor Gagliardi da Bernareggio, oggi 85enne, si trovava proprio su quel primo vagone che sfondò i muri del lanificio:

«Il treno andava a fortissima velocità, sapevamo che avremmo dovuto cominciare a rallentare perché ci aspettava la deviazione. Ci sembrava strano. Poi il disastro.

Mi salvai perché nonostante all’epoca fumassi, avevo scelto la parte centrale della carrozza, quella per non fumatori: non volevo puzzare, visto che andavo a Milano dove avevo un laboratorio di elettrodomestici. Fui ferito alla testa, persi molto sangue. Parecchia gente che viaggiava ogni giorno con me morì su quel vagone. Ricordo soprattutto gli altri ragazzi di Bernareggio. Avevamo notato qualcosa di strano: il nostro treno solitamente fermava a un certo punto per farci salire ma quel giorno dovemmo correre per prenderlo perché inspiegabilmente andò oltre.

Non seppi mai perché il macchinista quel giorno andasse così veloce, nonostante i petardi avessero segnalato la deviazione».

Gagliardi si salvò: «Ci tirarono fuori alcuni dipendenti del lanificio. Uno mi accompagnò all’ospedale, lo ringraziai ma non lo vidi mai più».

A salvare Gagliardi e molti altri dei feriti del Diretto 341 fu un eroe per caso. Si chiama Pietro Agostoni, è di Monza e in quei giorni lavorava al lanificio. Pietro, che a maggio compirà 77 anni, è quasi stupito che qualcuno lo abbia ritrovato: «Quel giorno ero appena arrivato in ditta col motorino. Sarei dovuto ripartire come ogni mattino per portare la lana a pettinare a Treviso.

Sentii un fracasso incredibile e il treno entrò nella portineria dell’azienda. Feci un balzo indietro. Il convoglio fu fermato solo da una putrella di acciaio che rimase lì piegata come ricordo. Cominciai subito a sfondare i vetri della carrozza con i sassi dell’acciottolato, sentivo i passeggeri che urlavano e imploravano aiuto. Fu terribile.

Rammento un sacerdote (don Giuseppe Caffulli, ndr) trapassato da una rotaia: aveva preso il treno per non rischiare un incidente in auto con la nebbia. Ancora oggi rivedo l’immagine di una donna sdraiata con una traversina sul petto, mi chiedeva aiuto. Il tempo di afferrare un piede di porco e tornare e la donna era morta».

«La carrozza era piegata - prosegue - e la gente era ammassata contro i finestrini. Estraevo più gente possibile dai vagoni, ne salvai almeno una decina. Mandarono degli autobus su cui caricare i feriti. Io presi una Fiat 600 multipla della ditta e ne portai due all’ospedale». Uno era Gagliardi. Oggi, a uno come Agostoni darebbero una medaglia. Lui fu invece dimenticato. «No, non mi diedero un premio né sentii più nessuno, ma ancora oggi quando passo di lì ripenso a quella tragica mattina, alle carrozze a penzoloni nel vuoto e a tutti quei morti e feriti».

Il processo Il locomotore quel giorno era volato oltre il ponte rimanendo però sulla rete dei binari. Il vagone di testa aveva compiuto un’impennata andando a schiantarsi capovolto contro un capannone del lanificio “BBB” adiacente alla linea ferroviaria. Altre tre carrozze erano deragliate, restando nell’area della ferrovia mentre due erano invece precipitate adagiandosi sulla scarpata. Solo le ultime quattro carrozze erano scampate all’inferno di morti e feriti.

Le cause? All’epoca si parlò soprattutto della nebbia, che aveva impedito al macchinista, smarritosi in un mare di caligine, di rallentare a 10 km orari come previsto in quel punto, dove invece il treno aveva solcato i binari a oltre 80 km/orari.

Nel corso del processo un aiuto macchinista svelò che probabilmente il deragliamento era stato provocato dalla violenta frenata in curva che aveva fatto saltare il treno sul binario facendolo uscire dalle rotaie.

«I segnali di rallentamento si vedevano appena» raccontò al processo.

Ecco perché i due - macchinista e aiuto macchinista - sporsero il capo fuori dal finestrino per scorgerli ma non ci riuscirono. Fino a quando impulsivamente uno dei due, pensando di aver saltato l’ultimo segnale di rallentamento e di essere diretto verso il disastro, manovrò la leva della rapida azionando il freno d’emergenza e scatenò il finimondo.

Soltanto il 5 gennaio del 2011, dopo cinquant’anni, è stata posta finalmente una targa a ricordo del terribile incidente sul ponte in viale Libertà. Di testimoni di quell’epoca però, ormai, non c’era quasi più traccia.