Daniele Gatti: "Qui sono profeta in patria. Milano mi ha permesso di crescere con serenità"

Il direttore d'orchestra torna a dirigere alla Scala di Massimiliano Chiavarone

Il direttore d'orchestra Daniele Gatti

Il direttore d'orchestra Daniele Gatti

Milano, 12 ottobre 2014 -  “A Milano sono stato profeta in patria”. Lo racconta il direttore d’orchestra Daniele Gatti.

Ma come, di solito non si dice che “Nessuno è profeta in patria”?

Sì, ma nella mia città natale a me è capitato il contrario. Sin dagli esordi della mia professione, mi è sempre stata vicina e sono sempre stato circondato dal sostegno dei milanesi. Mi sento proprio figlio di Milano.

Nella realtà, la sua è la storia di un figlio unico?

Sì, sono nato in via Tartaglia n. 1, una traversa di via Procaccini. I miei genitori lavoravano entrambi per cui si era posto il problema di chi potesse accudirmi durante la loro assenza. La soluzione arrivò dal primo piano dello stesso stabile, dove abitava la signora Adele. Era nata nel 1903 e allora aveva un sessantina d’anni. Le fui affidato quando avevo 1 mese. I miei genitori mi raccontavano che mi portavano da lei verso le sette e mezza del mattino e mi riprendevano la sera.

Una routine che durò a lungo?

Dal 1961 al 1975. Nel 1966 ci trasferimmo in via Sem Benelli n. 2, al quartiere Gallaratese, ma io continuavo ad andare dalla mia balia, per via della scuola. Frequentavo le elementari di via Mantegna. Adele, alla quale ero affezionato come ad una nonna, mi portava e mi veniva a prendere. Ogni volta che ripasso  in quella zona sono travolto dai ricordi. Milano mi piaceva tanto anche da piccolo.

La sua via preferita?

Oggi non ho una via preferita, ma durante la mia infanzia, mi piaceva la via Procaccini. Nel nostro lessico famigliare era sinonimo di pericolo e fascino allo stesso tempo,  perché a doppio senso di circolazione, molto trafficata e per giunta ci passavano i tram. Per me era diventata il confine tra un mondo e l’altro, tra l’infanzia e l’adolescenza. Era, con il dovuto rispetto, un po’ la mia Prospettiva Nevskij.

Perché?

Al di qua della via Procaccini, c’era la via Mantegna, le elementari, i giardinetti di Piazza Gerusalemme dove mi fermavo a giocare dopo la scuola. Al di là della Procaccini, si arrivava nella via Paolo Sarpi, allora una delle strade di Milano a più alta densità commerciale, piena di negozi al dettaglio non all’ingrosso, auto, gente, quindi richiedeva di essere accompagnati da un adulto, oppure di essere un po’ più grandicelli. Infatti cominciai  a frequentarla quando, a 11 anni, fui ammesso al Conservatorio, e due pomeriggi alla settimana dovevo recarmi  in quella via per prendere l’autobus per il centro contrassegnato dalla lettera “O”. Insomma il lato nord della Procaccini mi ricorda l’infanzia. Il lato sud, l’adolescenza.  Poi nel 1975 mia madre smise di lavorare per cui poteva seguirmi senza problemi e io smisi di andare dalla signora Adele.

Ne approfittò per scoprire un po’ di più Milano?

Sì, la mia Milano dell’adolescenza era quella del centro. L’appuntamento era con mio padre nel pomeriggio quando avevo finito al Conservatorio e lui usciva dalla Banca Commerciale di piazza della Scala. Giravamo per via Borgogna, corso Matteotti, piazza Meda, via Case Rotte e non mancavamo di salutare il Piermarini. Mio padre era stato un tenore, allievo di Aureliano Pertile e aveva fatto parte dei cadetti della Scala. Il mio avvicinamento alla musica lo aveva reso felice. Ma io mi sentivo un’anima divisa in due. Perché anche se passeggiavo in centro, le mie amicizie milanesi erano tutte in periferia, al Gallaratese, dove abitavo. I compagni del quartiere mi chiamavano “Beethoven”, ma io non mi facevo soffocare dallo studio. Dopo il Conservatorio quando tornavo a casa, prima di cominciare a studiare non rinunciavo mai alla mia partita a pallone. Non sono mai stato secchione: sui libri e al pianoforte ho passato sempre il tempo necessario, ma senza eccessi. A Milano sono grato perché qui sono cresciuto in un clima di serenità.

E poi le prime affermazioni come direttore d’orchestra?

Sì, il primo concerto a 18 anni dirigendo l’orchestra formata da compagni di Conservatorio nella mia parrocchia Regina Pacis del Gallaratese. E poi sono passato subito con i complessi più importanti della città, come i Pomeriggi Musicali, l’Aslico, la Rai e, naturalmente, la Scala.

Torna alla Scala questa sera per dirigere un concerto per il Fai. Non le nascondo che molti si aspettavano che sarebbe stato nominato direttore musicale del teatro del Piermarini.

Sì, ma non è successo. Non per questo giudico ostile la città. Anzi mi onoro di tornare alla Scala anche per mantenere vivo il rapporto con i tanti milanesi che continuano a scrivermi e a manifestarmi il loro affetto.

di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it  

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