Milano: morì a 26 anni, medici a giudizio

Accusa di omicidio colposo per un primario del Fatebenefratelli e il suo vice

Sala operatoria (foto di repertorio)

Sala operatoria (foto di repertorio)

Milano, 21 febbraio 2018 - Quel ragazzo del Bangladesh aveva un tumore benigno alla testa. Un “macroadenoma” dell’ipofisi che secondo gli esperti poteva essere trattato con farmaci o asportato solo parzialmente. L’equipe dell’ospedale Fatebenefratelli Oftalmico scelse invece la via dell’asportazione totale con un delicato intervento chirurgico che non andò bene. Il giovane, che in rapida successione subì poi altre due operazioni, si spense di lì a poco per le conseguenze di un’emorragia. Una vicenda triste avvenuta sei anni fa e che sarebbe rimasta negli archivi dell’ospedale, probabilmente, se qualcuno rimasto anonimo non avesse provveduto, qualche tempo dopo i fatti, a spedire in Procura un esposto senza firma che metteva pesantemente in dubbio la professionalità dei sanitari che si erano occupati del paziente Shkider Rohim, 26 anni, originaraio del Bangladesh, che a Milano era arrivato da poco, ospite di un cugino.

Anche la denuncia anonima, compilata da qualcuno che doveva aver avuto qualche parte in questa brutta storia, non ebbe comunque fortuna immediata. Finì sul tavolo di un magistrato che all’epoca aveva un procedimento disciplinare concluso in seguito con il suo trasferimento ad altra sede. Così il fascicolo sulla morte di Shkider, dopo tre anni passati in un cassetto, solo nel 2015 venne finalmente riassegnato ad un altro magistrato. E a quel punto partirono le indagini che hanno portato a giudizio davanti al tribunale il primario della Neurochirurgia del Fatebenefratelli, il professor R.A. e il suo collaboratore, dottor A.P., entrambi ora a processo per omicidio colposo davanti al giudice Nicoletta Marchegiani della nona sezione penale.

Oltre a doversi giustificare per la scelta dell’intervento chirurgico invasivo ai danni di Rohim - secondo il consulente della Procura «non indicato per il trattamento della specifica patologia» - entrambi devono anche difendersi dall’accusa di non aver raccolto un valido «consenso informato» del ragazzo circa l’alto rischio dell’operazione, «con esposizione che avveniva in maniera non comprensibile al paziente, che non parlava né italiano né inglese». L’aspetto più terribile, stando alla circostanza aggravante contestata dalla pubblica accusa, è che il professor A. avrebbe agito «nonostante la previsione dell’evento», con una superficialità che avrebbe cioè messo nel conto le complicazioni che portarono alla morte del giovane.

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