La sartoria non cuciva falsi. Il "Made in Italy" prodotto dai cinesi

Il cliente ora rivuole i duemila capi sequestrati. E un risarcimento morale di Andrea Morleo

La merce contraffatta in una foto della Guardia di Finanza di Lecco

La merce contraffatta in una foto della Guardia di Finanza di Lecco

Missaglia (Lecco), 25 luglio 2014 - Secondo la Finanza quei capi di abbigliamento erano del tutto falsi e erano pronti per essere immessi sugli scaffali dei negozi con tanto di marchi (contraffatti, ovviamente) delle più note maison della moda italiana, tra cui soprattutto Fendi e Cavalli. Così gli uomini delle Fiamme Gialle di Cernusco Lombardone non avevano avuto dubbio nel sequestrare quei duemila capi tra camicie, T-shirt e abiti trovati all’interno di quella sartoria di via XXV Aprile a Maresso, frazione di Missaglia. Il fatto che fosse gestita da un’imprenditrice di origini cinesi, 43 anni, aveva fatto scattare l’equazione più ovvia. E allora giù con i titoloni ad effetto - «Chiusa la sartoria del falso», e ancora «Blitz nel laboratorio delle griffe tarocche» - che, per carità, in molte zone d’Italia (su tutti il distretto tessile di Prato) corrisponde molto spesso al vero. Non in questo caso però dove la questione sembrerebbe diversa, anzi antitetica come ci racconta l’avvocato Paolo Rivetti del Foro di Lecco, incaricato di tutelare gli interessi dell’azienda milanese che ha commissionato quei lavori all’imprenditrice cinese. «Quei capi di abbigliamento sono stati affidati dalla mia cliente a quel laboratorio - ci spiega il legale - affinché venissero rifiniti oltre che applicate le etichette delle griffe, etichette fornite dalle stesse case di moda alla mia cliente». Una storia che, messa così, suona decisamente molto diversa da quanto appareiva. Tanto che lo stesso legale annuncia che «per fine mese è fissata udienza al Tribunale del Riesame per ottenere il dissequestro dei duemila capi». E forse anche un risarcimento morale.