L’ultimo magistrato che indagò sulla morte di Enrico Mattei: “Fu certamente omicidio”

Per Vincenzo Calia la verità è incontestabile: il presidente dell’Eni fu ucciso. Ma le ipotesi sui mandanti vanno dalle lobby del petrolio, ai suoi collaboratori fino ai servizi segreti francesi

Vincenzo Calia è il pubblico ministero che ha diretto l'ultima inchiesta sul caso Mattei

Vincenzo Calia è il pubblico ministero che ha diretto l'ultima inchiesta sul caso Mattei

Ma dopo la sua inchiesta c’è ancora qualcuno che parlerà di “misterioso” incidente aereo per quello in cui il 27 ottobre 1962, giusto sessant’anni fa, perse la vita il presidente dell’Eni Enrico Mattei? «Personalmente non conosco nessuno che lo farà, non ho questo piacere. Ma visto che esistono i “terrapiattisti” non si può escludere che anche per la morte di Mattei...».

Se la cava con una battuta Vincenzo Calia, ex magistrato da poco in pensione, che a metà anni ‘90, quando era pubblico ministero a Pavia, si occupò di una lunga e complessa indagine sulla fine di Mattei precipitato con il suo aereo privato a Bascapè, nel Pavese, insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano che con loro tornava in volo da Catania a Milano, William McHale. Indagine chiusa con l’archiviazione nel 2003, che però mise definitivamente in luce essersi trattato di attentato e dunque di omicidio.

I funerali di Enrico Mattei nella chiesa di Santa Barbara a San Donato Milanese

Decisiva, in particolare, la consulenza tecnica che sui pochi resti del velivolo e degli effetti personali dei passeggeri rinvenne comunque tracce di esplosivo, una piccola carica che esplose in volo, come del resto avevano confermato già a suo tempo i racconti di alcuni testimoni nell’immediatezza dell’attentato. «Certo è così, ormai si deve dire che fu omicidio al cento per cento. Il “mistero”, semmai, è rimasto sui nomi dei mandanti e sul movente. Su questi punti prove certe la mia inchiesta non ne ha trovate».

Però nel libro “Il caso Mattei” che ha scritto cinque anni fa con la giornalista Sabrina Pisu, e che nella prima parte ripropone gli elementi della sua indagine, i sospetti sembrano accentrarsi soprattutto sull’allora braccio destro di Mattei Eugenio Cefis, che ne avrebbe raccolto l’eredità all’Eni con una linea aziendale e politica del tutto diversa se non opposta. «Non l’ho detto io che sia stato Cefis perché non ho prove, lo dicono altri. Ho trovato note dei servizi segreti che riferiscono come all’interno dell’Eni si riteneva plausibile che Cefis non fosse estraneo a quella morte. Ma questa non è una prova, è un’opinione riportata in un appunto. Poi c’è Pasolini nel suo libro “Petrolio” che è ancora più esplicito, ma Pasolini non è una prova...».

Eugenio Cefis, braccio destro di Enrico Mattei, che gli successe alla guida dell'Eni

Personaggio certamente misterioso Cefis, che dopo aver lasciato Eni per guidare Montedison, nel ‘77 sparì dalla scena pubblica ritirandosi in Svizzera. Non venne mai indagato nella sua inchiesta e tuttavia lei non lo sentì nemmeno come testimone. Perché? «A distanza di trent’anni dai fatti, convocai come testimoni persone dalle quali mi aspettavo di poter avere informazioni utili per le indagini. Cefis non avevo bisogno di sentirlo, perché quello che pensava sulla morte di Mattei l’aveva già detto pubblicamente in alcune interviste. Era dell’idea che l’aereo non fosse stato sabotato, ma se proprio si voleva sostenere che Mattei era stato ucciso, allora erano stati i francesi».

Nel suo libro ricorda anche l’appunto dei servizi italiani che indica Cefis come il vero fondatore della loggia massonica P2, prima di abbandonarla in mano al duo Gelli-Ortolani. È un appunto credibile? «È molto credibile. Sono riuscito a identificare la fonte, un dirigente di altissimo livello del ministero della Difesa collaboratore dei servizi, che aveva frequentazioni altrettanto importanti anche vicine a Cefis. Per me quella nota è attendibile soprattutto per la tecnica di redazione e per le modalità con le quali ne entrai in possesso».

Ma lei ha capito poi perché Cefis nel ’77 mollò ogni carica e scappò in Svizzera? «Stando alla stessa fonte dei servizi, Cefis lasciò il timone della Montedison perché aveva paura. Lo ha detto poi in un libro anche Aldo Ravelli, il più importante agente di Borsa che per lui aveva curato la scalata alla Montedison. In quegli anni, ricorda, Cefis era convinto che stessero per arrestarlo insieme a Amintore Fanfani non per corruzione e tangenti ma per motivi più gravi. Erano al suo fianco, racconta Ravelli a chi lo intervistava, ufficiali e generali dell’esercito e carabinieri...».

Torniamo però ai possibili moventi dell’attentato a Mattei, che sono svariati. Da quello interno all’Eni a quello della Cia che non gradiva l’azione di disturbo alle aziende petrolifere Usa (le “sette sorelle”), fino ai servizi francesi perché Mattei finanziava i ribelli che nel luglio del ‘62 ottennero l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Lei ha detto di essersi imbattuto, anni dopo aver chiuso la sua indagine, in un libro francese che l’ha sorpreso molto. «Sì, è successo di recente ma il libro è stato pubblicato nel ‘68. È scritto da tre giornalisti uno dei quali, in seguito, ha rivelato che si trattava di fatti veri narrati loro da un importante capo dei servizi francesi. È il racconto romanzato di una serie di vicende, e c’è un capitolo in cui si narra la vicenda di un magnate svizzero del petrolio, perfettamente sovrapponibile a quella di Mattei. Nella storia i francesi portano a termine l’attentato grazie alla complicità del braccio destro della loro vittima».

Enrico Mattei incontra il principe del Kuwait in Marocco, nel 1960

E dunque si ritorna a Cefis. Ancora solo sospetti, però. «Ma nel libro c’è una coincidenza che mi ha particolarmente colpito. Per nascondere senza problemi l’esplosivo all’interno dell’aereo, i servizi francesi tolgono di mezzo con un finto incidente il motorista di fiducia del pilota».

Anche nella vicenda che riguarda il presidente dell’Eni successe qualcosa di analogo proprio prima dell’ultimo volo fatale di Mattei a Catania. Giusto? «Sì ma nel ‘68, quando uscì il libro francese, questo particolare non lo conosceva nessuno. L’ho scoperto nella mia indagine solo trent’anni dopo leggendo gli atti dell’inchiesta palermitana sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. E trovando una lettera nella quale Marino Loretti, il motorista di fiducia del pilota di Mattei, scriveva al fratello dell’ex presidente dell'Eni, Italo, chiedendogli di poterlo incontrare perché aveva da dire cose importantissime sull’incidente di Bascapè. Loretti però morì poco dopo, anche lui in un incidente aereo insieme al figlio e così non poté essere sentito dai magistrati di Palermo».

Dottor Calia, per lei che ha indagato quasi dieci anni sulla sua morte, chi era Enrico Mattei? «Ne hanno scritto in tanti. Da commissario liquidatore ebbe il merito di intravedere nell’Agip la possibilità di dare avvio ad un percorso che avrebbe dovuto far guadagnare alla piccola Italia un’autonomia energetica. Aveva capito che era l’unico modo per raggiungere l’indipendenza economica».

Mattei venne molto criticato anche dalla stampa. Un nome per tutti: Indro Montanelli, che in una serie di articoli sul Corriere attaccò frontalmente la politica dell’Eni e dopo la morte di Mattei invece celebrò la linea di Cefis. «Montanelli era entusiasta del percorso di riduzione dell’indebitamento di bilancio intrapreso da Cefis, senza specificare però che ciò era possibile solo grazie al denaro iniettato dai politici nell’Eni, che in questo modo aveva perso la libertà. Montanelli fra l’altro non era un esperto di economia, però scriveva benissimo».

Torniamo al presidente dell’Eni. Oltre alla ricerca di una verità storica sulla sua morte, a 60 anni dai fatti vede ragioni di attualità che spingano a conoscere meglio la sua vicenda? «Certo. Se Mattei avesse avuto il tempo di firmare (pochi giorni dopo) l’accordo per la realizzazione del gasdotto che dall’Algeria doveva arrivare in Italia per poi diramarsi in Europa, oggi avremmo avuto meno problemi per rifornirci di gas dopo la crisi con la Russia».