Caso Yara, Bossetti alla madre: "Traditrice". Ester: "Solo uno sfogo, lui mi ama"

I tormenti del muratore nelle lettere dal carcere: chi è mio padre? di Gabriele Moroni

Massimo Giuseppe Bossetti e la madre, Ester Arzuffi

Massimo Giuseppe Bossetti e la madre, Ester Arzuffi

Brembate Sopra (Bergamo), 29 marzo 2015 - Un figlio scrive alla madre. Una trasmissione televisiva parla della lettera. Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive alla mamma Ester Arzuffi. L’accusa di avergli mentito per 43 anni sul nome del suo vero padre, non Giovanni Bossetti ma l’autista Giuseppe Guerinoni. «Dopo tutto quello che mi  hai detto sei venuta due volte e mi hai stretto la mano e mi hai detto che il Dna lo dimostrerà... e mi hai guardato negli occhi, dicendo ‘Credi in me e vedrai che la scienza ha sbagliato e sarà come dico io’». «Tu sapevi – accusa – e mi hai tenuto all’oscuro di tutto e non mi hai dato nemmeno l’opportunità di poter conoscere il nostro vero padre».  Eccola, Ester Arzuffi, nello studio del legale di famiglia, l’avvocato Benedetto Maria Bonomo, noto penalista bergamasco. Mostra al cronista il fascio delle lettere del figlio. 

Signora Arzuffi, sono cose tremende.

«Quella apparsa in televisione è una parte di una lettera scritta da Massimo l’11 ottobre, lo sfogo di una persona in una situazione terribile. Io e mio marito ci siamo scambiati con nostro figlio più di venticinque lettere. Le sue parole sono sempre d’amore per noi. Questa è lalettera immediatamente successiva, il 9 novembre: ‘Carissimi genitori miei, mi ha fatto molto piacere avervi visto sabato insieme a Laura (la sorella gemella, ndr), ma non preoccupatevi perché per me siete e sarete sempre i miei veri genitori, anche se ho avuto quelle brutta reazione nei vostri confronti’».

Quando vi ha scritto l’ultima volta?

«Pochi giorni fa, il 24 marzo: ‘Ciao genitori miei, oggi ho ricevuto la vostra lettera scritta il 22, grazie, la cosa più bella è ricevere le vostre lettere e sapere che mi siete sempre vicini e soprattutto che non mi avete mai abbandonato, sia con lo scritto, sia col pensiero, ma soprattutto con la presenza, questo vuol dire avere dei genitori che credono in te, genitori che sempre mi hanno voluto bene e che tantissimo oggi mi vogliono ancora più bene. Voi siete i miei genitori, genitori che ho sempre amato e che amerò per tutta la mia vita, grazie Mamma, grazie Papà».

Lei non ha mai smesso di sostenere la ‘sua’ verità, contro la scienza, anche contro l’esito dei test voluti da voi familiari.

«Continuo a dirlo. Questa è la verità di una donna che ama la sua famiglia e lotta per tenerla unita». Siete stati descritti come una famiglia sconvolta, disarticolata. «Stiamo vivendo una prova terribile, devastante. L’unione e il calore si possono percepire già nelle lettere di Massimo che le ho mostrato e anche dal fatto che i componenti della famiglia sono ancora tutti insieme, più forti e combattivi di prima. Troviamo la nostra forza nel cercare di portare avanti le cose della vita quotidiana, nonostante che non riusciamo a fare un passo senza essere seguiti da una telecamera. Per noi, che siamo gente semplice, che non ha mai cercato di apparire, è una esperienza stressante. Anche i rapporti con mia nuora Marita sono normali. Ci unisce il comune amore per Massimo e per i bambini».

Come è stato il primo incontro di voi genitori in carcere?

«Bello e terribile. Bello poterlo rivedere e abbracciare dopo 45 giorni. Terribile per il luogo. Ci è venuto incontro e ci ha detto: ‘Pensavo che non sareste più venuti a trovarmi’. Per via dei permessi avevamo dovuto aspettare 45 giorni».

Nella lettera al nostro giornale suo figlio dice di credere soltanto in se stesso.

«È disperato. Ha capito che la verità può uscire solo da lui. Non vede l’ora che si vada al processo per po- ter provare la sua innocenza. È forte perché sa di essere innocente».

Cosa vorrebbbe dire ai genitori di Yara?

«Che sono addolorata per la loro bambina. Come mamma sono vicina alla madre. Ma sempre da mamma sono certa che il responsabile di una cosa tanto orrenda non è mio figlio».

di Gabriele Moroni