Omicidio Lidia Macchi, ex agente: "Consegnate due lettere, il pm mi impedì di indagare"

Il dirigente della Mobile che avviò le primissime indagini sottolinea le contraddizioni nelle versioni fornite agli inquirenti da don Sotgiu

Delitto Macchi, Stefano Binda a processo

Delitto Macchi, Stefano Binda a processo

Varese, 28 aprile 2017 - Seconda udienza del processo per l'omicidio Lidia Macchi, stamani a Varese. Ma è slittata al 10 maggio l'audizione della madre della vittima,  la studentessa di Varese massacrata con 29 coltellate nel gennaio 1987. La donna, Paola Bettoni, oggi avrebbe dovuto comparire in aula, ma l'audizione di alcuni testimoni ha richiesto più tempo del previsto. Sono stati ascoltati, in particolare, gli investigatori che 30 anni fa condussero le indagini dopo il ritrovamento del cadavere della giovane, legata a Comunione e Liberazione. Al centro delle testimonianze anche i nuovi accertamenti che nel gennaio 2016 hanno portato all'arresto di Stefano Binda, accusato di aver ucciso la ragazza, sua ex compagna di liceo.

IL SIMBOLO DELLA LETTERA - Stefano Binda, il 50enne arrestato a gennaio 2016 per l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa varesina massacrata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987, custodiva a casa sua un libro e una cartolina con lo stesso simbolo che si trova in calce al componimento anonimo "In morte di un'amica", vergato secondo gli inquirenti dall'assassino della ragazza. Il particolare è emerso da alcune delle testimonianze rese oggi. Il 50enne di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia e militante insieme a lei nel movimento di Comunione e Liberazione, venne arrestato nel gennaio 2016 sulla base di una perizia grafologica che lo ha indicato come autore di quello scritto anonimo.  Nella perquisizione scattata nella sua abitazione il 25 febbraio 2016, circa 40 giorni dopo il suo arresto, sono stati rintracciati anche un libro e una cartolina pasquale dell'anno 1986 che recavano un simbolo particolare: un cerchio attraversato da una riga. Una sorta di ostia utilizzata anche come firma del componimento anonimo recapitato alla famiglia Macchi nel giorno dei funerali di Lidia. Secondo quanto riferito nella sua testimonianza uno degli investigatori che condussero le indagini, "è un simbolo medievale utilizzato negli anni Ottanta negli ambienti di Comunione e Liberazione. Un simbolo che dunque poteva ricondurre l'autore dello scritto anonimo ad ambienti di Cl". Secondo la difesa, rappresentata dagli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito, il simbolo del componimento anonimo è "simile ma non uguale" a quelli trovati nei reperti sequestrati all'imputato.

L'AGENDA E TRE STELLETTE - Lo stesso blitz portò anche al sequestro di un'agenda del 1986 che custodiva al suo interno un foglietto con scritto "Stefano barbaro assassino". E ancora, una Smemoranda del 1989 intestata, in prima pagina, a "Binda Stefano che però si è pentito". C'è poi il caso delle tre stellette utilizzate da Binda per firmare alcune cartoline inviate all'epoca del delitto all'amica Patrizia Bianchi. Le stesse tre stellette con cui Lidia aveva firmato una poesia d'amore ritrovata nella sua borsetta dopo l'omicidio. Fu proprio Patrizia Bianchi la prima persona a notare la notevole somiglianza tra la grafia di Binda e quella del componimento anonimo. L'EX AGENTE DELLA MOBILE: "PM MI IMPEDI' ACCERTAMENTI" - In aula, come teste, anche Giorgio Paolillo, dirigente della squadra Mobile di Varese all'epoca della scomparsa di Lidia. Paolillo ha ripercorso tutti i momenti della scomparsa della studentessa, da quando la sera tra il 5 e il 6 gennaio 1987, a mezzanotte e mezzo, arriva in Questura la telefonata della madre di Lidia per segnalare che sua figlia non è rientrata a casa. Quel pomeriggio Lidia era andata in ospedale a trovare un'amica rimasta ferita in un incidente. "Diedi subito ordine alle pattuglie di perlustrare fossati e burroni - ricorda Paolillo -. L'ipotesi più probabile era che la Panda di Lidia fosse uscita di strada".  Il giorno seguente è il papà di Lidia a presentarsi negli uffici della Questura. "Giorgio Macchi non presentò immediatamente denuncia perché era convinto che quella della figlia fosse una fuga d'amore". Ha riferito in aula Paolillo, ricostruendo la primissima fase di indagini a poche ore dalla scomparsa della studentessa, massacrata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987. La denuncia di scomparsa, come ricostruito in aula, venne presentata solo il 6 gennaio alle 16.30.  Il cadavere di Lidia fu trovato nel bosco di Cittiglio il 7 gennaio da uno dei gruppi dei suoi amici che nel frattempo si erano organizzati in squadre per fare le ricerche. "Il papà di Lidia era nel mio ufficio quando ho ricevuto notizia del ritrovamento dell'auto e del corpo della figlia - ha ricordato Paolillo -. L'ho invitato a tornare a casa, dicendo che in caso di novità lo avremmo richiamato. Il corpo era coperto da un grande cartone. Il cadavere presentava una quindicina di ferite di arma da taglio sulla schiena, oltre a ferite al petto, al collo e alla mano sinistra. C'era una grossa macchia di sangue sul sedile dell'auto di Lidia. Non furono trovati gli occhiali della vittima e l'autopsia rivelò che non aveva lenti a contatto. 

I primi sospetti degli inquirenti si concentrarono su Giuseppe Sotgiu, ex compagno di Liceo della vittima e amico di Stefano Binda, unico imputato per il delitto della studentessa varesina. Sotgiu, nel frattempo diventato sacerdote, venne ascoltato dagli investigatori il 13 febbraio 1987 e la sua versione apparve subito contraddittoria, come ha sottolineato in aula l'ex dirigente della Mobile.  "Abbiamo sentito Sotgiu il 13 febbraio, una quarantina di giorni dopo il delitto. Ci disse che la sera del 5 gennaio era andato al cinema insieme a Stefano Binda e a un altro amico. Poi rettificò affermando di essere rimasto a casa sua a vedere il film, non al cinema". I successivi accertamenti appurarono che Sotgiu non trascorse la serata del 5 gennaio a casa sua, ma da un amico. E Binda non era insieme a loro. "Sotgiu - ha aggiunto il testimone - non si ricordava bene. Perciò sospettavamo di lui". Fu dunque Sotgiu a fare per la prima volta il nome di Binda agli inquirenti. Ma l'uomo arrestato il 15 gennaio 2016 come presunto killer della studentessa fornì immediatamente un alibi che lo scagionava: "Binda ci disse che il 5 gennaio era in montagna, a Pragelato, in Piemonte. Assicurò di essere rientrato il 6 gennaio". Di recente don Sotgiu è stato indagato per reticenza: secondo gli inquirenti, avrebbe cercato di proteggere l'amico Binda. Nel maggio 2009 un uomo consegnò alla Questura di Varese due lettere che a suo giudizio contenevano "elementi fondamentali" per la risoluzione del giallo di Lidia Macchi. "Dopo aver ricevuto le lettere - ha riferito Paolillo - svolsi alcuni accertamenti sull'uomo che ce le aveva consegnate. Era un soggetto con piccoli precedenti per droga che era stato ricoverato per 6 anni in un manicomio giudiziario.  Avvisai la procura che avrei provveduto a sentirlo. Ma il pm di allora mi diffidò dall'intraprendere qualsiasi iniziativa in assenza di una sua specifica autorizzazione".

ha collaborato  GABRIELE MORONI