Varese, la ricetta: "Il ritorno alla normalità? Un’ora di pedalate"

Edward Ravasi, ciclista professionista varesino, racconta il suo lockdown e la ripresa degli allenamenti: ci ho messo poco a riabituarmi

Edward Ravasi durante una gara

Edward Ravasi durante una gara

Comerio (Varese), 23 maggio 2020 - «Cosa ho fatto appena finito il lockdown? Ho preso la bici e sono andato a cercarmi due belle salite: Cuvignone e Campo dei Fiori. Senza guardare dati, valori, parametri, ma per il semplice gusto di godermi il momento e riabbracciare le mie strade, le mie valli, il mio mondo". La felicità ha il sapore dell’asfalto e della fatica. E la semplicità ha il volto di Edward Ravasi, 26 anni fra pochi giorni e un’(in)sana passione per le due ruote, "nata fra i banchi di scuola a Besnate - racconta -, dove lo sport principale non è il calcio, ma il ciclismo". E coltivata nel tempo, fra rinunce e sacrifici che gli hanno spalancato le porte dell’UAE Team Emirates e del World Tour.

Ravasi, com’è stato tornare ad allenarsi all’aperto? "Un po’ strano, perché dopo due mesi sui rulli la sensazione è quasi quella di non riuscire a stare in equilibrio. Per sbloccarmi mi ci è voluta un’oretta, poi è tornato tutto come prima. Il confinamento mi è pesato solo all’inizio, perché allenarsi senza obiettivi è più difficile: quando però ho trovato la mia routine, ho sfruttato al meglio il periodo. In questo ho fatto tesoro dell’esperienza vissuta dopo l’infortunio al femore dell’anno scorso, che mi ha costretto a rimanere in casa per tanti mesi". Quali sono i programmi per la stagione 2020? "Mi piacerebbe partecipare alle gare italiane, dal Giro d’Italia alle grandi classiche come Milano-Sanremo e Lombardia. Nelle poche competizioni disputate prima dello stop ho potuto verificare che la mia forma è tornata al top nonostante il grave infortunio, quindi vorrei mettermi alla prova non solo come uomo squadra, ma anche cercando di togliermi qualche soddisfazione personale. Starà al team decidere, sperando che la stagione riparta davvero". Come s’immagina la convivenza fra ciclismo e Covid-19? "Sarà strano non vedere nessuno alla partenza o all’arrivo di una gara, ma la TV saprà senz’altro soddisfare appieno la voglia di sport dei tifosi. Per quanto riguarda gli eventi in sé, vedo un po’ più difficile svolgere in sicurezza una corsa a tappe, con l’intera carovana che ogni giorno si dovrà spostare da un luogo all’altro. Le responsabilità che gli organizzatori dovranno prendersi saranno enormi". Ha iniziato a pedalare per gioco, insieme ai compagni delle elementari, e adesso è un corridore professionista: se lo aspettava? "Assolutamente no. Ho iniziato a crederci solo da dilettante, e mi sono fissato un obiettivo. Le rinunce e i sacrifici non si contano: è stata davvero dura, e quindi è ancora più bello esserci riuscito". Lei è nato e cresciuto a Besnate, ora vive a Comerio. È rimasto molto legato al territorio… "Sì, perché mi ha dato tanto. E poi mi piace proprio dove vivo. Prima abitavo in campagna, adesso mi sono spostato in un appartamento, ma appena esco sono nel verde. E poi anche a livello di amicizie, quelle più sincere vanno avanti dai tempi delle elementari". Ha mai pensato a cos’avrebbe fatto se non fosse diventato un corridore professionista? "Certamente. Sono cresciuto in campagna e ho coltivato, nel vero senso del termine, la passione per l’agricoltura. Infatti a carriera finita mi piacerebbe aprire un’attività di produzione di frutta e ortaggi qui nel Varesotto". Una volta appesa la bici al chiodo lascerà quindi il mondo del ciclismo? "Al contrario, mi piacerebbe fare entrambe le cose. Il ciclismo mi ha dato e insegnato tanto: il sacrificio, la costanza, la perseveranza. L’anno scorso ho davvero rischiato di finire anzitempo la carriera, perciò adesso cerco di sfruttare ogni momento vissuto in quello che considero il mio mondo. La passione non mi è mai mancata, il talento magari sì, ma piano piano me lo sono costruito. Ecco, mi piacerebbe aiutare i giovani a non mollare davanti alle prime difficoltà".