
Valerio Bianchini racconta il suo affetto per Cantù, la famiglia Allievi e il ruolo storico nel basket italiano.
Valerio Bianchini, uno dei padri nobili della panchina italiana, racconta il suo legame con Cantù, una città che considera speciale.
Che rapporto ha con Cantù? "Di particolare affetto. Sono stato assistente di Taurisano nel 1970, un’esperienza che mi ha fatto conoscere il nucleo centrale della società, la famiglia Allievi. Aldo era dotato di grandissima intelligenza e senso pratico: riusciva a tenere testa a potentati come Milano e Varese. Una base solida, allargata poi a figure come Pierluigi Marzorati e oggi Roberto Allievi, che ha tentato in tutti i modi di riportare Cantù ai vertici, nel rispetto della sua tradizione. Producevamo giocatori, da Marzorati a Recalcati e Riva. Era una scuola di vita, anche a tavola".
Quanto è stato importante il settore giovanile?
"Fondamentale. Ricordo Bernardis, detto “Botta“, un triestino che non faceva sconti: al primo errore ti correggeva, al secondo si toglieva la cintura. Aldo Allievi si alzava la domenica presto, messa alle 8, poi a vedere i giovani".
Come vede la figura di Nicola Brienza?
"Un prodotto canturino. Le proporzioni sono cambiate molto, ma il suo percorso è coerente con quella tradizione".
Un ricordo del Pianella?
"Ci ero molto affezionato. In quella scatola di lamiera si stava male d’inverno, ma c’era un’atmosfera unica. Era come un frigorifero. Non potevi stare fermo, si correva per forza".
Cosa rappresentano per lei i primi trofei con Cantù?
"Ero giovane. L’atmosfera era eccezionale, la famiglia della proprietà si allargava alla squadra. Veri appassionati. Quelli di oggi sono stati invece persistenti, resilienti. Hanno sempre assorbito bene le delusioni".
Che ruolo ha Cantù nel basket italiano?
"Tiene viva la rivalità con Varese e Milano. La Lombardia pesa politicamente. Cantù la vivifica, e tutto ciò che succede lì si riflette nel resto d’Italia. Il peso della tradizione".A.L.M.
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