
Cristiano nel nome di Faber: "Sempre più giovani trovano risposte nelle canzoni di papà"
Quei giorni perduti a rincorrere il vento “a chiederci un bacio e volerne altri cento” riaffiorano dalla chitarra di Cristiano De André assieme al ricordo del padre-monumento che celebra il 24 luglio a Villa Erba di Cernobbio nella cornice de Le Serre Music & Comedy Festival, e poi ancora il 26 luglio al Lazzaretto di Bergamo e il 7 settembre in Piazza della Loggia a Brescia. L’opportunità è data dal venticinquesimo anniversario della scomparsa di Fabrizio e dallo spirito antologico dello spettacolo “De André #DeAndré - Best Of Live Tour” in cui Cristiano raccoglie la créme dei quattro album dal vivo dedicati a Faber. "Sono quattro anni che non calco le scene e per me è sempre un piacere, forse anche un dovere di figlio, cantare le sue canzoni – riflette –. Questo offre l’opportunità a quelli che l’hanno scoperto solo grazie ai dischi di ascoltare la musica di mio padre eseguita dal sangue del suo sangue. Un bello scambio di emozioni, perché ci sono sempre più ragazzi che trovano in quelle canzoni risposte alle proprie domande esistenziali".
Da figlio, qual è il periodo della produzione di Fabrizio che le è più caro?
"Quello dell’album con l’indiano in copertina perché gliel’ho visto scrivere all’Agnata, la nostra tenuta di famiglia in Sardegna, con Massimo Bubola passo dopo passo. In quegli anni avevo la mia band, i Tempi Duri, e fummo invitati ad aprire i suoi concerti. Io comparivo in scena pure durante il suo set, ma solo per suonare la chitarra in ‘Fiume Sand Creek’ e fare il verso del cuculo. Non posso non citare pure il tour di ‘Creuza de mä’, il primo in cui ho fatto parte a pieno titolo della sua band, né l’ultimo, quello di ‘Anime salve’, che dette l’opportunità di ritrovarci, parlarci, stare assieme come forse mai era capitato prima".
Che impressione le fa incrociare col suo tour quello di Mauro Pagani che, in occasione del quarantennale, riporta in scena proprio le canzoni di “Creuza de mä”?
"Non posso che esserne felice, perché ‘Creuza’ è pure suo. Il bouzouki ed altri strumenti etnici che mi porto dietro nei concerti li ho ereditati da lui e da quell’esperienza assieme".
Com’è cambiato il mondo da quei tour?
"Per me tanto, visto che allora viaggiavo attorno ai trent’anni mentre ora ne ho 61. Cantare mio padre, però, mi regala ancora l’opportunità di scoprire nei testi qualcosa di non colto, qualche intuizione leggibile fra le righe che va a definire meglio un dato concetto, a fotografare in maniera più efficace una certa situazione".
Fabrizio ci ha lasciati a soli 58 anni.
"Ammetto che da quando ho superato quella soglia, mi sento un po’ sopravvissuto. Nonostante oggi sia più vecchio di lui, in scena mi sento ancora un cucciolo, il ventenne che si portava accanto sul palco di ‘Creuza de mä’".
Suo padre non voleva che facesse il suo mestiere, però l’iscrisse al conservatorio.
"Col pensiero alla nostra azienda agricola in Sardegna, mi avrebbe voluto veterinario. Questo anche per proteggermi dalla durezza del confronto che avrei dovuto accettare scegliendo di camminare sulla sua stessa strada. In effetti, non è stato facile affrontare questo mestiere da “figlio di“, ma ho preferito soffrire un po’ di più e fare quel che mi sentivo di fare".
L’ultimo tour, legato alla rivisitazione integrale di “Storia di un impiegato”, l’ha messa a tu per tu con una generazione molto meno portata ad alzare la testa di quella raccontata nel disco.
"Effettivamente, s’è capito anche dall’esito delle elezioni europee. La cosa mi ha riportato alla mente un proverbio turco che dice: “Alla fine gli alberi votarono ancora per l’ascia perché, astutamente, per via di quel manico di legno li aveva convinti d’essere una di loro”".
L’ultimo album d’inediti “Come in cielo così in guerra” rimane probabilmente il migliore della sua discografia. Però è di dieci anni fa. Poi cos’è successo?
"Ho voluto prendere il toro per le corna ed occuparmi di mio padre. Portarlo alle nuove generazioni. L’ho fatto un po’ per piacere mio e un po’ perché era anche un suo desiderio. Non nascondo, però, che il non pubblicare canzoni nuove sia dovuto al fatto che non so più bene neanch’io cosa scrivere".
Perché?
"Viviamo tempi difficili pure da raccontare. Vedo un De Gregori, ad esempio, che continua a passare da un tour all’altro senza pubblicare nuovi album d’inediti. Penso sia difficile dire cose interessanti quando ti trovi a vivere momenti assai poco interessanti. E poi tanti autori di oggi non riuscirebbero a portare alla discussione i contenuti che hanno saputo offrirgli Francesco e mio padre neppure con le carriole".
Come avrebbe reagito Fabrizio al logorio dei tempi moderni?
"Probabilmente sarebbe andato avanti per la sua strada, anche se con grande amarezza. Ricordo ancora la disillusione con cui, durante l’ultimo tour, rifletteva sul fatto di aver passato la vita ad impegnarsi contro la guerra, le prevaricazioni, a stare dalla parte dei più deboli, degli ultimi, ma non aver assistito ad una sola conquista in quelle direzioni. Ecco perché penso che oggi non basti sposare il suo pensiero e la sua parola, ma vadano messi anche in pratica".