"Prezzi bassi e sostegno agli artisti italiani: così può ripartire la musica"

Alfredo Cappello, responsabile dell'area concerti dei Magazzini Generali: "Stare senza lavoro è dura. Il nostro mondo ha pagato la mancanza di coesione"

Alfredo Cappello (foto Sara Magni)

Alfredo Cappello (foto Sara Magni)

Milano, 12 febbraio 2021 – Chi fermerà la musica? Lo diceva una vecchia canzone. Fra le tante cose belle congelate dalla pandemia ci sono proprio concerti, dj set ed esibizioni di danza. A fermarsi non sono stati solo gli artisti, ma anche tutto il mondo che lavora dietro le quinte. Oggi, a un anno di distanza dal calo del sipario, la fine del tunnel ancora non si vede. Alfredo Cappello, 47 anni, milanese, lavora nel mondo dello spettacolo. Dal 2015 è il responsabile dell’area concerti dei Magazzini Generali, oltre che il titolare dell’etichetta discografica Ammonia Records. Con la sua squadra ha riportato il locale di via Pietrasanta agli antichi fasti. “Sono fermo dal 23 febbraio scorso – dice – Cosa mi manca del mio lavoro? Tutto. Ma soprattutto la felicità di ‘portare a casa una serata’. Quando, dopo un concerto, ti ritrovi con gli artisti e con chi ha lavorato nell’organizzazione a guardarti negli occhi, felice per il successo ottenuto”.

Quando ha compreso che il suo mondo avrebbe affrontato un lunghissimo stop?

“A fine marzo. Allora ho osservato come la situazione fosse più complessa del previsto. Ho amici che lavorano negli ospedali e da loro ho avuto notizie che non erano in linea con le comunicazioni ufficiali. Mi dissero che il coronavirus era molto aggressivo, non solo perché era a noi sconosciuto ma anche perché era complicato da combattere, tanto da richiedere l’elaborazione di un vaccino. A quel punto, sapendo della lunghezza dei tempi dell’approvazione per un antidoto, anche se poi fortunatamente la scienza ha saputo abbatterli, ho capito che ci dovevamo preparare a una lunga sofferenza. Del resto sin dai primi tavoli sulla ‘ripresa’, il governo è stato chiaro. Ci disse che il nostro mondo sarebbe stato l’ultimo a ripartire”.

Come ha reagito?

“Mi è stata subito evidente un’urgenza, conoscendo la filiera del mondo dello spettacolo. Per prima cosa bisognava aiutare i locali piccoli, ritrovi con una gestione familiare, i cui responsabili mettono nell’impresa i risparmi di una vita. Con un periodo di chiusura così lungo all’orizzonte non è possibile progettare il futuro. Per questo c’è stato subito il bisogno di abbozzare una visione diversa”.

Cosa sta significando per lei questo lungo pit-stop?

“È una mazzata. Io opero come consulente, non sono dipendente. Questo significa, con gli eventi completamente congelati, che grandissima parte delle mie entrate è congelata.  Ho cercato di dedicarmi di più all’etichetta, ma anche in questo caso il Covid ha pesato. È impossibile promuovere nuove uscite. Mancando la dimensione live, che per molte band è fra le fonti d’entrata più importanti, portare avanti progetti è impraticabile. A quel punto ho tirato il freno. Da marzo ho pubblicato solo un album, “Fuori mercato” dei Linea, storica combat punk band milanese. È uscito a settembre, con la convinzione di poterlo lanciare con qualche esibizione live in autunno, ovviamente con capienze limitate e posti solo seduti. Poi sono stati vietati anche questi show, allora mi sono bloccato. Inutile pubblicare dischi in questo momento, anche perché nelle tasche degli acquirenti girano meno soldi”.

Quanti concerti che avrebbe seguito sono saltati dall’inizio dell’epidemia?

“Una trentina fino a giugno. Poi altri venti in autunno. Oltre i cinquanta in totale”.

Cosa avrebbero dovuto fare le istituzioni e le associazioni di categoria che hanno trascurato di fare?

“Bisogna partire dal presupposto che ci siamo trovati in una situazione del tutto imprevista. La nostra classe dirigente, al netto degli errori commessi, non era pronta ad affrontare lo tsunami. Credo però che fosse necessario costruire una struttura fissa in cui chi decide sul fronte sanitario e delle restrizioni potesse dialogare con le voci del nostro settore. Ci voleva un tavolo di confronto permanente che esprimesse le istanze del comparto musica a nome di tutti. Altro che ‘Netflix della cultura’. Ora bisogna programmare la riapertura, anche se è ancora lontana nel tempo. Al momento nessuno vuole ancora affrontare l’argomento”.

È un grosso problema?

“Certo! Anche se quest’anno la stagione, soprattutto a livello di eventi medio-grandi, è già compromessa. Io ricevo email e telefonate da agenzie che intendono riprogrammare nella primavera prossima le date previste per l’autunno del 2021. Ci sono questioni pratiche che non hanno ancora risposta”.

Esempi?

“Pensiamo a una band che prepara un tour europeo. I gruppi si muovono per il continente con uno o più mezzi su cui caricare persone e strumentazione. Non c’è un protocollo condiviso che spieghi le regole sugli spostamenti. Ogni governo, poi, sulle restrizioni ai confini fa come gli pare. Ci sono nazioni in cui chi ha un semplice raffreddore viene bloccato alla frontiera e obbligato a fare il tampone. È chiaro che il concerto salta, se una carovana resta ferma per sei ore prima di entrare in un Paese, dovendo arrivare nel primo pomeriggio del giorno successivo al locale dove dovrebbe suonare la sera. E poi c’è tutta la componente del rischio. Chi si sente al sicuro a lavorare a ogni livello con la paura ancora forte di contagiarsi?”.

Come ha reagito il vostro mondo alle difficoltà? Poteva comportarsi diversamente?

“All’inizio, come è successo a molti, la situazione è stata un po’ sottovalutata. In molti pensavano di ripartire a maggio. Quando abbiamo avuto consapevolezza che si trattava di un mero sogno, il nostro settore ha fatto una gran fatica a compattarsi. Abbiamo pagato anche la mancanza di un organismo di rappresentanza unico, una sorta di sindacato nazionale che tuteli le tante figure che lavorano nel nostro comparto. Ma hanno inciso parecchio anche le divisioni interne”.

Davvero?

“Sì. La protesta dei Bauli in piazza, per fare un esempio, che ha avuto il suo momento di maggiore visibilità nella manifestazione di piazza Duomo ma che è stata preceduta da settimane di lavoro attento e coordinato, è riuscita a ottenere buoni risultati, aprendo la strada all’arrivo di fondi a risarcimento. In quell’iniziativa mancava il mondo della musica classica. Poco tempo dopo sono stato inserito all’interno di una pagina Facebook  nata per dare voce proprio alle richieste di orchestrali e maestranze dei teatri. Ho chiesto loro perché non si erano uniti alla protesta dei bauli e mi sono sentito rispondere che preferivano portare avanti le loro istanze in autonomia. Credo sia stato un errore. E non è stato l’unico, non voglio buttare la croce addosso solo al mondo della classica. Il problema è che è mancata la coesione in tutto l’universo dello spettacolo”.

C’è una soluzione a questa spaccatura?

“Siamo ancora in tempo a riunirci in una struttura unica. Mi auguro che i soggetti che sono riusciti a ottenere qualche risultato concreto continuino nel loro impegno, anche sui fronti della spinta per il rispetto delle leggi sul lavoro e del rapporto con gli enti governativi, che devono essere messi nelle condizioni di riconoscere a livello legale difficoltà che non sono loro chiare”.

C’è anche un problema di opacità, mi pare di capire…

“Il tema esisteva già prima del Covid. La pandemia l’ha fatto esplodere. C’è una fetta del nostro mondo che ha trascurato le tutele necessarie a ciascun lavoratore. A qualcuno fa comodo, per altri – chi viene sfruttato – è complicato non sottomettersi ai ricatti. Però voglio aggiungere una nota di speranza”.

Prego.

“Proprio in questo anno maledetto sono stati fatti passi in avanti su questo tema. Sono convinto che certi compromessi che prima venivano accettati a denti stretti, ora verranno rifiutati. Spero che questa nuova consapevolezza possa essere un insegnamento per quest’anno e il prossimo. Sono convinto che anche nel 2022 non si potrà tornare alla situazione pre-pandemia. Anche perché stiamo ancora pagando l’approccio estivo”.

Ossia?

“La situazione fra giugno e settembre è stata gestita molto male. A livello governativo, perché si è dato il via libera a un’apertura più o meno indiscriminata, anche per motivi economici sulla carta legittimi. Ma anche i gestori dei ritrovi hanno responsabilità. Hanno finto che il Covid non esistesse più. E ora i locali che lavorano negli altri mesi dell’anno pagano le conseguenze di queste leggerezze. Penso anche che durante l’estate ci volessero maggiori controlli per punire eventuali situazioni fuori legge”.

Cosa le manca di più del suo lavoro?

“Tutto. Dalla quotidianità fatta di contatti con i colleghi promoter e i responsabili di altri locali, all’impegno perché gli artisti possano sentirsi accolti bene quando arrivano ai Magazzini Generali per suonare. Io sono stato anche dall’altra parte della barricata, girando in tour con i gruppi come tecnico del suono. Questo mi ha permesso di capire quali sono le esigenze di chi viaggia per fare concerti. Mi mancano anche l’apprezzamento e il rispetto di tutti quelli che hanno lavorato con me. Ora ci sentiamo tutti isolati ed è durissima”.

Quanta nostalgia ha dei concerti?

“Tantissima. Dietro a un’esibizione dal vivo, riuscita o meno, ci sono mesi di lavoro di tantissime persone. Ma allo stesso tempo basta poco per rischiare di compromettere una serata. Sento anche la mancanza dell’adrenalina precedente la salita della band sul palco. Persino delle difficoltà che possono intralciare l’evento. Mi è capitato di dover recuperare strumenti e amplificatori dal nulla perché il materiale utilizzato del gruppo era rimasto bloccato in dogana. Una volta poco prima dell’inizio del live è saltata la corrente. Pensai a un corto circuito. Poi controllai il quadro elettrico e vidi che era tutto a posto. Uscii in strada e osservai che tutto il quartiere era al buio. C’era stato un black-out. Poi la luce tornò e il gruppo riuscì a suonare lo stesso, fortunatamente. Ecco, forse, la cosa che mi manca di più è la sensazione post-concerto di ‘aver portato a casa la serata’, condivisa con tutte le persone che si sono impegnate per la buona riuscita dello spettacolo. La soddisfazione per aver chiuso un cerchio che ora è ben lontano dall’essere riaperto”.

Cosa non dovrà mancare per una ripresa in sicurezza?

“Sono convinto che l’idea di un patentino vaccinale sia corretta. A mio modo di vedere tutti quelli che lavorano in un locale dove si svolge una serata devono aver ricevuto il vaccino. Non lo vuoi? Cercati un’altra occupazione. Questo funziona anche per il pubblico. Agli spettatori, però, dati i tempi che ci attendono per la vaccinazione di massa, potrebbero essere fatti anche i test rapidi prima dell’ingresso. Questo vale solo per locali di piccole dimensioni. Spero che chi governa, poi, quando dovrà elaborare le linee guida della ripresa pensi, anche attraverso il confronto con il nostro mondo, a soluzioni adeguate alle leggi in vigore, che variano da Paese a Paese. E, magari lavorando su capienze ridotte, consenta quel minimo di socialità, parte irrinunciabile della dimensione dello spettacolo musicale. Ma voglio chiudere con un ultima riflessione”.

Quale?

“Spero che quando si potrà ripartire, per forza di cose a scartamento ridotto, si possano privilegiare gli artisti italiani. Per diversi motivi. Perché sono più connessi alla nostra realtà, perché garantiscono una promozione più agevole e perché, aiutandoli, si può innescare un piccolo circolo virtuoso per il sistema Paese. Auspico anche che tutte le componenti del nostro comparto facciano uno sforzo per una ripresa più sostenibile per il pubblico. Dobbiamo trovare una quadra ‘al ribasso’ dal punto di vista economico, non da quello della qualità. Penso a prezzi dei biglietti calmierati, dato che gireranno meno soldi, soprattutto fra i giovani. Questa è una soluzione che nel medio termine ci aiuterà a galleggiare nel percorso che ci porterà a uscire dalla pandemia”.

 

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