Guantanamo, alla sbarra i 5 ideatori dell'11 settembre: rischiano la pena di morte

Riprende l'8 settembre il processo sospeso da due anni per Covid. La "mente" accusa i sauditi, ma pesano le torture nelle prigioni segrete della Cia

Una raffigurazione grafica del processo di Guantanamo

Una raffigurazione grafica del processo di Guantanamo

Riprende a Guantanamo, nel campo di prigionia statunitense a Cuba, il processo sui presunti ideatori degli attentati dell’11 settembre. Khaled Cheikh Mohammed, Ammar al-Baluchi, Walid bin Attash, Ramzi bin al-Shibh e Mustafa al Hawsawi verranno giudicati, a partire da mercoledì 8 settembre, da un tribunale militare d’eccezione. Rischiano la condanna alla pena di morte. In prigione da 15 anni, i cinque accusati non compaiono davanti alla giustizia dal 2019. La pandemia di Covid-19 ha infatti interrotto il processo. La difesa mira a invalidare le prove avanzate dall’accusa, facendo appello agli atti di tortura che avrebbero subito gli accusati dal 2002 al 2006 nelle prigioni segrete della Cia. Il processo verrà condotto dal colonnello Matthew McCall, un nuovo magistrato militare, l’ottavo a occuparsi del caso. Secondo gli avvocati della difesa, ci vorranno ancora mesi prima che il processo entri nella fase decisiva.

Khalid Sheik Mohammed, la mente dell'attentato
Khalid Sheik Mohammed, la mente dell'attentato

I gruppi per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, e legali dell’esercito Usa hanno denunciato che la commissione militare creata col pretesto della extra territorialità della base non può garantire un giusto processo. E sostengono che il procedimento dovrebbe tenersi in una corte federale, con gli imputati trattati come sospetti criminali, o in una corte marziale in base alla Convenzione di Ginevra, che vieta processi civili per i prigionieri di guerra

Sul dibattimento grava inoltre l’illegalità delle torture subite dai detenuti nelle prigioni segrete della Cia, che rischia di minare l’attendibilità delle confessioni e la loro ammissibilità tra le prove, come ha paventato la stessa corte suprema nel 2008. O quantomeno di essere usata per appelli che potrebbero trascinare l’iter giudiziario per 20 anni, avvisa la difesa. Senza contare i fallimentari ritardi accumulati finora, con un processo non ancora decollato a 18 anni dalla cattura di Ksm in Pakistan e a 13 dalla sua incriminazione. 

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Crescono intanto gli interrogativi se l’intelligence americana avrebbe potuto arrestare Khalid Sheikh Mohammed anni prima degli attacchi. È quello che si chiede con grande rammarico sulla Bbc Frank Pellegrino, l’ex agente speciale dell’Fbi che ha inseguito Ksm per quasi 30 anni. Sin da quando incrociò il suo nome indagando sulle bombe del 1993 al Word Trade Center e sul piano per far esplodere diversi aerei sul Pacifico nel 1995. A metà anni ‘90 fu ad un passo dall’arrestarlo in Qatar ma, racconta, ci furono resistenze dei diplomatici Usa sul posto per il timore di compromettere le relazioni con Doha.

Alla fine l’ambasciatore americano lo informò che le autorità locali non sapevano più dov’era Mohammed. “Un’occasione persa“, ammette, ma precisando che in quegli anni Ksm non era visto come un target ad alta priorità, tanto che non riuscì a farlo inserire neppure nella lista delle dieci persone più ricercate d’America. «Non è pentito», aggiunge Pellegrino, avvisando che «il più infame terrorista del mondo» ha «sense of humor» e ama lo show..