Rachele, pilota di rally: vi racconto la mia vita sempre in quarantena

Somaschini, classe 1994, malata di fibrosi cistica, è abituata all'isolamento, In coppia con la navigatrice Lombardi nel 2019 ha vinto la Coppa Aci femminile

rachele

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Cusano Milanino, 23 marzo 2020 - Almeno un metro di distanza per qualcuno è quotidianità e normalità. Di più: almeno un metro di distanza, a volte, è la più alta e nobile forma di amore. E' così per i malati di fibrosi cistica, come Rachele Somaschini, pilota di rally di 26 anni, che con la sua campagna "Correre per un respiro" cerca di sensibilizzare le persone su questa malattia e di raccogliere fondi per la ricerca. Se l'emergenza sanitaria attuale sta stravolgendo le vite di ognuno di noi, quelle degli immunodepressi o delle categorie a rischio, come Rachele, le lascia come appese a un filo. Appena compreso che il coronavirus colpisce le vie respiratorie, per Rachele "è iniziato un incubo". Si è rifugiata in un piccolo paese della Valle d'Aosta, trascorre i giorni lontana da tutti, compresa la sua famiglia che invece è rimasta a Milano. "Un esilio volontario", come lo chiama lei. In realtà dice di essere abituata a "quarantene ben peggiori: quando un raffreddore o una tosse non passano o mi prendo un batterio nuovo, resto in ospedale 15 giorni per fare le flebo di farmaci. E al massimo si esce per una passeggiata in giardino". Per un malato di fibrosi cistica mantenere le distanze, lavarsi spesso le mani ed evitare luoghi affollati non sono certo comportamenti nuovi: "Io al cinema non vado mai, se prendo il raffreddore ci metto tre mesi per riprendermi. Certe regole per noi rappresentano la normalità e mi fanno ridere le persone che non riescono a rispettarle per qualche settimana. Non stanno chiedendo l'impossibile e anzi mi verrebbe da dire: benvenuti nel nostro mondo". Ma chi non ha mai avuto problemi, racconta, "forse si sente onnipotente, un po' egoista, e non riesce a pensare che i suoi comportamenti possono essere nocivi per sé e per gli altri".

A proposito del pensare a sé e agli altri, Rachele mi fa notare che un anno fa è uscito un film, "A un metro da te", che racconta l'amore a distanza tra due 17enni affetti da fibrosi cistica. A distanza, sì, perché la regola è chiara: le persone con questa malattia genetica devono stare lontane almeno un metro per non trasmettersi batteri e infezioni. E se da un lato la voglia di sfiorarsi fa crescere il desiderio di infrangere la regola, l'amore per sé e per l'altro ricorda loro che è proprio quella regola a tenerli in vita. Ecco perché almeno un metro di distanza, a volte, è la più alta e nobile forma di amore. Un costrizione, ma anche una forma di rispetto, che ora riguarda anche tutti noi. Come direbbe Rachele: benvenuti nel nostro mondo.

Non avere contatti con altre persone per Rachele in questo momento è un obbligo assoluto. Anche perché, al Policlinico di Milano, il suo reparto di pneumologia "è stato smantellato per far fronte all'emergenza Covid-19 ed è destinato alla cura dei contagiati. Quindi se mi succede qualcosa devo andare al pronto soccorso, un luogo che di norma non dovrei mai frequentare". Inoltre sono state sospese tutte le visite di controllo e i ricoveri programmati: "La nostra routine si è inceppata per cui dobbiamo cercare di stare bene il più possibile". Stare bene il più possibile dipende, in questa fase, da noi stessi e dagli altri. Dipendiamo tutti dalla consapevolezza e dalla sensibilità altrui. Se solo riuscissimo a capire, come ci insegna chi convive con regole che a noi sembrano stravolgere la vita, che anche la distanza, a volte, è una forma di amore.

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