L'archistar Mario Botta: "Meno consumismo, più sacro. E la tradizione va attualizzata"

Il percorso dell'architetto tra il Centro pastorale di Seriate e la moschea di Yi nchuan

L'archistar Mario Botta

L'archistar Mario Botta

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Metti, la domenica , in una chiesa del centro storico di Milano. Durante le celebrazioni, fedeli più numerosi di qualche tempo fa. Effetto, forse, del Covid. Vietati gli assembramenti, almeno lo spazio sacro resta aperto all’esigenza dei singoli di sentirsi parte di una comunità. Esigenza riconosciuta da Mario Botta nel magistrale dialogo "Il gesto sacro", sui fondamenti della ricerca architettonica tra finito e infinito (con Beatrice Basile e Sergio Massironi, per Electa).

Un’inversione di tendenza, architetto, rispetto al destino delle nostre chiese vuote o dismesse? "Probabile che c’entri il Covid. Che è il frutto, non dimentichiamolo, della nostra sciaguratezza rispetto all’ambiente. Perciò, un rallentamento del furore dei consumi, per raccogliersi semmai nel culto, ben venga".

Allarghiamo il raggio della costellazione di chiese. "Io, originario del Canton Ticino, considero un privilegio essere nato nel ’43 ai margini della Lombardia. Terra di costruttori che hanno fatto la storia, dal romanico al barocco. E fornito modelli straordinari alla tradizione dell’architettura spirituale. Attualizzarla è il nostro tentativo".

Perfettamente riuscito nelle sue realizzazioni nel mondo. A Parigi Évry ha progettato l’unica cattedrale del XX secolo. Dalle nostre parti? "La chiesa di San Pietro Apostolo, a Sartirana di Merate (Lecco). E il Centro pastorale Giovanni XXIII a Paderno di Seriate (Bergamo), a lato di una bella chiesetta settecentesca".

Nessuna conflittualità tra nuovo e passato? "L’unico modo per rispettare l’antico è essere autenticamente moderni. L’ ho imparato da Carlo Scarpa (1906-1978, architetto, designer e accademico italiano, tra i più importanti del XX secolo). Perciò nessuna interferenza ha subito la vecchia struttura. Non più funzionale, mi faceva comunque sentire la vibrazione della sua raffinatezza".

Come l’ha attualizzata? "All’interno del nuovo edificio, ho rivestito la superficie superiore delle pareti con pannelli di legno ricoperti di foglie d’oro. Materiale costoso quanto una tinteggiatura".

Ed espande la luce che mette in rapporto con l’infinito? "Sì. Ritornandovi, un giorno incontrai una signora. Commossa: “Qui, prego meglio”, mi avrebbe poi scritto in una lettera".

Lo spazio di qualità di una chiesa, le hanno mai proposto di costruirlo in un’imbarbarita periferia? "Il Centro di Seriate, in realtà, l’ho inserito in un insediamento urbano sparso, il solito habitat senza valore, dove l’aumentata popolazione doveva ritrovare il segno di una cultura e di una dignità".

Nelle megalopoli la speculazione edilizia risulta molto più impietosa... "Se mi chiedono un intervento, sono pronto. Ritengo però che l’architettura del domani, più che correggere certi stravolgimenti, anche per ragioni economiche li dovrà demolire".

La sua prima chiesa nel 1986 a Mogno (Svizzera), in sostituzione di quella secentesca travolta da una valanga. L’ultima, per ora? "La moschea di Yinchuan, in Cina, al confine della Mongolia. Voluta dallo Stato. Il cantiere è rallentato dalla pandemia".

Guardiamo al futuro. La rassicura avere tre figli (due maschi e una femmina) pure architetti? "Ne sono felicissimo e preoccupatissimo. Fare il dentista garantisce più clienti. Ma il mestiere di architetto, che viene da lontano, può essere anche una forma di resistenza".  

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