Era morto sul lavoro, ma nessuno ha visto niente

John Villagran, 43 anni, schiacciato da un macchinario. Non poteva essere solo, ma non si trovano testimoni

Incidente sul lavoro (foto di repertorio)

Incidente sul lavoro (foto di repertorio)

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Milano  - Non può aver fatto tutto da solo. John Villagran, 43 anni, dipendente della Generalfrigo di Melzo, azienda di trattamento e conservazione di carni in grandi quantità, è stato trovato a terra morto due anni fa, schiacciato da un cassone pieno di femori di suino che si stava sollevando per andare a svuotarsi. L’hanno trovato steso lì, nel “recinto“ di quel macchinario pericoloso, privo di vita. Non c’è stato un collega che abbia ammesso di essere stato al lavoro insieme a lui. Non uno che abbia descritto la scena tragica di una morte sul lavoro apparentemente senza colpe. E così l’indagine sulla fine di John ucciso dai femori di suino si è già conclusa con l’archiviazione.

Eppure, lo stesso gip Sofia Fioretta, nel provvedimento che chiude (almeno per ora) il caso, scrive in pratica che il poveretto non può aver fatto tutto da solo. "E’ verosimile - si legge - ritenere che, non potendo il Villagran chiudersi in modo autonomo nell’area segregata, vi sia stato un altro operatore che abbia dato volontariamente il via al ciclo di lavoro con la persona offesa all’interno dell’area del ribaltatore". Dunque qualcuno era con Villagran e però ora tace. Certo perché ha delle responsabilità in quello che è successo. Quello che lui e John stavano facendo, infatti, è contrario ad ogni misura di sicurezza. Nessun lavoratore può stare in quello spazio stretto mentre il macchinario è in funzione. Per intervenire nel “recinto“, va bloccato tutto. In quel modo, però, il ciclo produttivo si ferma per alcuni minuti.

Ma perché gli addetti dovrebbero entrare nella “gabbia“? Perché quando il cassone carica i femori di suino e si riempie troppo, una parte del prodotto ricade a terra e se resta lì impedisce la discesa del cassone per il carico successivo. Per “ripulire“ il pavimento, i lavoratori usano una lunga pertica sporgendosi sopra il cancelletto chiuso. Ma anche quella, spesso non basta. E allora, sostengono le avvocate Ilaria Urzini e Patrizia Carteri che difendono la madre e la figlia di Villagran, la prassi aziendale sarebbe di far ripulire la “gabbia“ senza bloccare la produzione. In pratica, aggirando i sistemi di sicurezza. "John si sarebbe trovato all’interno per pulire il pavimento dai femori nei 60 secondi che il ribaltatore ci metteva a salire e riscendere e avrebbe sbagliato i tempi. Questo per evitare che la linea di confezionamento si bloccasse", denuncia il legale.

Un’ipotesi "plausibile" ammette il gip Fioretta, ma "non sono emersi elementi idonei" a provare che quella fosse "una prassi consolidata e accertata" in azienda, "né elementi utili all’individuazione dei soggetti che possono aver azionato l’impianto". Strano, però. Perché Villagran viene visto e soccorso da colleghi solo pochi secondi dopo che la tragedia si è compiuta; poi, dal posto di lavoro di un’altra addetta si vede benissimo il quadro dei comandi della “gabbia“, tanto che è stata la prima a intervenire dopo. E, per di più, c’è chi ha visto sul posto due meccanici dell’azienda, pochi minuti dopo la scoperta del cadavere, chissà a far che. Uno dei due, intercettato al telefono, sembra ammettere di essere intervenuto sul macchinario, dopo la tragedia. Non è bastato a evitare che la Procura chiedesse l’archiviazione del caso.

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