Stupri e torture sui migranti: "Sono il vostro padrone". Presunto aguzzino preso a Milano

«io non sono somalo, non sono musulmano, sono il tuo padrone». Lui si sentiva «il tuo Dio» nel campo di prigiona di Badi Wahil

Nel campo di Bani Walid, di cui il 22 enne Matammud era un gestore, i migranti erano imprigionati finché non potevano pagarsi la traversata del Mediterraneo

Nel campo di Bani Walid, di cui il 22 enne Matammud era un gestore, i migranti erano imprigionati finché non potevano pagarsi la traversata del Mediterraneo

Milano, 18 gennaio 2017 - «Io non sono somalo, non sono musulmano, sono il tuo padrone». Osman Matammud, alias Ismail, si sentiva «il tuo Dio» nel campo di prigiona di Badi Wahil, la seconda tappa della drammatica odissea dei profughi somali in viaggio verso l’Europa. Riconosciuto in via Sammartini dalle sue vittime lo scorso 26 settembre e inchiodato dalle loro coraggiose testimonianze, ieri gli è stata notificata a San Vittore un’ordinanza di custodia cautelare con accuse pesantissime: omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale.

Già, le violenze sessuali. Ripetute e violentissime. «La prima sera – ha raccontato tra le lacrime una diciassettenne – Ismail di notte è venuto nell’hangar, mi ha presa e mi ha stracciato il vestito davanti a tutti, poi quando sono rimasta nuda ha cercato di penetrarmi, ma non ci è riuscito perché io sono infibulata. Allora mi ha trascinata nuda davanti a tutti fuori dall’hangar, mi ha portato in una stanza di un edificio vicino all’hangar, eravamo solo io e lui. Mi ha legato le mani dietro la schiena, mi ha messa a terra con la schiena per terra, mi ha aperto le gambe e con uno strumento metallico, non so dire se un coltello o una lametta, ha aperto l’accesso alla mia vagina, al fine di penetrarmi, praticando un taglio attraverso l’infibulazione». Un’immagine di una crudezza senza pari, che riportiamo solo per farvi comprendere quali atrocità sono state costrette a sopportare ragazze non ancora maggiorenni. «Lì dal dolore sono svenuta, quando mi sono svegliata mi aveva già violentato perché avevo sangue dappertutto. C’era ancora Ismail, e insieme a due libici mi hanno riportata nell’hangar». Ogni sera, questo tragico copione si replicava puntuale. «Ismail era molto violento, spesso beveva, e oltre a violentarmi mi picchiava, con pugni, calci, spesso con la cinghia, a volte con dei bastoni. Io cercavo di difendermi, con le mani, ma era tutto inutile perché lui, quando iniziavo a far così, mi legava le mani dietro la schiena». Il calvario pareva interminabile: «Quando veniva a prendermi erano in genere le dieci di sera, e mi riportava nell’hangar verso le tre di notte, e per tutte queste ore subivo violenze sessuali e venivo picchiata: era impossibile ribellarsi, ci avrebbero sparato all’istante».

La stessa frase messa a verbale da un’altra ragazza, pure lei presa di mira da Matammud: «Mi ha fatto entrare nella sua camera, ha chiuso la porta e ha detto “Spogliati ragazza: con me devi obbedire, tu mi appartieni”. Ho risposto “No, non mi spoglio, cosa vuoi da me, io ho pagato la mia parte”. Lui ha insistito dicendo che ero nelle sue mani o in sua proprietà e mi ha intimato di nuovo di spogliarmi. Al secondo rifiuto mi ha dato uno schiaffo e ha chiamato i due guardiani ordinando loro di legarmi». Corde alle persiane e stupro. «Sono stata chiusa lì dentro tre giorni e tre notti, in cui sono stata violentata ulteriormente».

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