Quella fame simbolo di gioventù

Claudio

Negri

Eravamo creativi, squattrinati e affamati. Come Hemingway e compagnia nella Parigi di cent’anni fa. Una festa altrettanto mobile, che per noi, tra liceo e università, aveva luogo nella Milano di cinquant’anni or sono. Sia poi detto di passata che le analogie con Hemingway finivano già prima di cominciare, specie in materia di creatività. Ma quanto ad appetito, ecco: in comune con zio Ernest avevamo l’apparato digerente sempre in debito di cibo. Non già per indigenza, ma per entusiasmo di ganascia. Ci alzavamo all’alba e alle dieci del mattino avevamo i crampi. Nei bar di Milano, la parca Milano di allora, eravamo noti per il consumo quasi sconsiderato di toast, con la laida lussuria della farcitura: un’oleosa, vaga giardiniera che aveva il medesimo brusco sapore da Rogoredo a Precotto. Anche nel vecchio caffé della stazione di Lambrate la farcitura sapeva di farcitura. Però c’era un pappagallo, vivo e non commestibile, che era a suo modo un’attrazione perché non parlava mai. E poi c’era, tra le bottiglie in vista dietro al bancone, uno strano liquore, il Niente. Si chiamava davvero Niente. “Cosa le do?”. “Mah, Niente....”. Risate a denti stretti. Tuttavia la vera Mecca di noi creativi e affamati era in Città Studi, dove si poteva mangiare a prezzi irrisori anche per l’epoca. In una trattoria non lontana dal Politecnico, primo, secondo e contorno (capelli compresi) si consumavano a meno di un euro: mille e cinquecento lire del vecchio conio. Il meglio lo dava la mensa universitaria di via Celoria: un primo e un secondo a trecentocinquanta liruzze. I secondi erano in verità bidimensionali, fetta esangue di prosciutto o di vitello trasparente su piatto di plastica. Uno di noi una volta mise nel vassoio tre secondi l’uno sull’altro, non si vedeva quasi la differenza e così si presentò con aria innocente alla cassa. Venne pesantemente redarguito. Ma lui: “Ah non si può? Mi scusi, non lo sapevo...”. Lo studente iraniano in fila dietro di noi, con gli occhi iniettati di sangue (per motivi suoi) ci guardò con muto disprezzo.

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