La mostra dell’artista e scultore pop britannico Allen Jones con le opere iperrealiste di donne nude o in costumi fetish, che davano vita anche a sedie particolari – lo stesso stile di quelle scelte da Stanley Kubrick nel “Korova Milk Bar“ di Arancia Meccanica – aveva destato scalpore negli anni ’70 a Milano. A volerla era stata Carla Pellegrini Rocca, nella sua Galleria Milano di via Manin-Turati. "Ma quella mostra fu chiusa, ritenuta poco decorosa, non rispettosa del buon costume. E Carla la portò a Basilea. Era avanguardia. Oggi, quelle opere d’arte non farebbero certo scandalo", riflette Giovanni Oberti, artista, che guida i visitatori nella “Fondazione Galleria Milano“ trasferita in via Romilli 7, al Corvetto, nel 2022. La gallerista Carla Pellegrini Rocca, che ha diretto questa realtà dal 1965 al 2019, fino alla morte, ha compiuto scelte coraggiose e lungimiranti, la prima ad esporre in Italia la Pop Art inglese, l’Azionismo viennese, il gruppo Gutai giapponese, artisti tedeschi allora emergenti e statunitensi.
Oggi si continua, in via Arcivescovo Romilli dove lo scorso 18 marzo è stata inaugurata la mostra d’apertura: “Piazza senza nome“, visibile fino al 8 giugno, dedicata a un progetto nato dal dialogo tra l’architetto-artista russo Alexander Brodsky e il figlio Sasha Brodsky, artista visivo, stampatore e musicista che vive e lavora a Brooklyn, a New York. "Lo spazio espositivo della Fondazione Galleria Milano ospita una grande installazione in terra cruda – la spiegazione – alla quale il visitatore può accedere solo attraverso le finestre presenti sulle pareti dell’installazione stessa. Questa l’ambientazione: in uno scenario urbano, in una grande piazza anonima, si stagliano uno in fila all’altro tre alti obelischi. Intorno, una folla di persone fa riflettere sulla solitudine all’interno di un contesto collettivo solo all’apparenza, perché non fa altro che disvelare il solipsismo dell’individuo".
Per realizzare quello che all’apparenza sembra “un semplice parallelepipedo“, con in realtà un mondo al suo interno, sono intervenuti tanti familiari degli artisti, da più città del mondo. A completare l’opera: disegni e incisioni lungo le pareti, che dialogano con l’installazione stessa. E in questo “gioco di scatole cinesi“ partecipa anche la Fondazione, le cui ampie finestre invitano subito lo spettatore a guardare all’interno, e che a sua volta si trova all’interno di un classico cortile milanese, che dialoga con il quartiere e la città in cui si trova, in un momento di forte cambiamento ed espansione.
M.V.