Il gran dolore per la pasticceria che chiude

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Piero

Lotito

Se ne è parlato parecchio: "Chiusa la storica pasticceria "Vecchia Milano"". Giornali, radio, televisioni. Interviste, articoli, fondamentali commenti degli abitanti del luogo. Tutto giustificato, per carità: l’attività aveva 50 anni, e 83 ne vanta il titolare Orazio Parisi, che merita il giusto riposo. Per il quartiere attorno a viale Argonne si è trattato, hanno sospirato in molti, di un vero colpo al cuore. Ma è così: quando si abbassa per sempre la serranda di un locale di vecchia data è un po’ come se cambiassero la storia e l’umore di quel quartiere. Un’altra nota pasticceria, la "Supino" in zona Papiniano, chiuse lo scorso anno proprio di questi giorni. E fu anche quella una notizia triste e clamorosa. A Milano, del resto, la chiusura di nobili esercizi è pratica di tutti i giorni, un po’ perché nell’ordine delle cose e un po’ perché mantenere un’azienda, anche piccolissima come un negozio, è oggi un vero lusso: affitti alle stelle, concorrenza incarognita, manodopera sempre più costosa. Manodopera, ecco. Ci sono mestieri che richiedono ricambi, formazione, affiatamento. E oggi pare che più nessuno abbia voglia di impararne uno. Basta sentire un parrucchiere, un gelataio o appunto un pasticciere. Alla domanda "Scusi, dopo di lei chi viene qui a tenere aperto?", ci si sente facilmente rispondere: "Nessuno. Dopo di me, amen. Speravo si facesse avanti un giovane". Ma perché una pasticceria che chiude fa più rumore d’una libreria, mettiamo, che appende i libri al chiodo? Forse perché l’industria del mangiare e del bere è divenuta negli ultimi tempi la voce più importante del nostro vivere. Il mondo della tavola spopola su tutti i mezzi d’informazione: le reti televisive allestiscono pranzi e cene a tutte le ore, giornali e riviste sono pieni zeppi di ricette, gli chef sono più popolari dei calciatori. La stessa pandemia ha accentuato la tendenza: nel terribile biennio 2020-2022, il più alto grido di dolore proveniva dall’universo della ristorazione, e di solo ristoro in effetti si sentiva parlare. All’aperto c’è meno pericolo di virus, e via alla creazione di vistosi gazebo su strade e marciapiedi. Forse non si è pensato che anche le librerie si sarebbero potute giovare di un prolungamento all’aperto dei loro scaffali, per dar modo di scegliere un volume in maggiore sicurezza. Nessuna meraviglia, dunque, che il tramonto d’una rinomata pasticceria getti nello sconforto e che all’annuncio della chiusura d’una libreria si faccia, al massimo, spallucce.

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