"La battaglia col virus durerà altri due anni. Ma no al lockdown, la gente non capirebbe"

Maria Rita Gismondo, dirigente del laboratorio di microbiologia del Sacco di Milano: "Il meglio e il peggio dei giorni che hanno cambiato le nostre vite"

Maria Rita Gismondo

Maria Rita Gismondo

Milano, 19 febbraio 2021 - È passato un anno, ma per certi versi siamo come all’inizio dell’emergenza. «Che il virus sparisca è improbabile; dobbiamo abituarci a conviverci per almeno due o tre anni ancora». Il tempo, cioè, precisa Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze all’Ospedale Sacco di Milano, «che si sviluppi una prima immunità di gregge. Sempre che l’agenda delle vaccinazioni cambi ritmo e consenta finalmente di rendere la campagna efficace. Al momento il vaccino è un’arma spuntata».

Gismondo, lei non è nuova a dichiarazioni pesanti. Perché il vaccino, unico strumento contro la pandemia, non basta? «Non ci sono dosi sufficienti a garantire l’immunità di gregge. Cioè a far sì che il coronavirus non trovi più organismi dove replicarsi. Perché questo avvenga bisognerebbe vaccinare l’80 per cento della popolazione in un breve periodo. Ai ritmi attuali, la copertura garantita da ogni dose verrà annullata dalla lentezza della campagna vaccinale».

Quanto dura la copertura del vaccino anticovid? «A detta dei produttori, sette o otto mesi. Ed è un tempo di cui i responsabili del piano vaccini dovrebbero tenere conto». L’emergenza sanitaria è iniziata il 20 febbraio di un anno fa proprio dopo che nel laboratorio da lei diretto era stato processato il tampone del cosiddetto «paziente 1».

Cosa significa per lei oggi quella giornata? «Un’esperienza da sliding doors, il momento che ti cambia l’esistenza. L’ha fatto a me e a tutti quanti fanno il mio lavoro. Di colpo ci siamo lasciati alle spalle la diagnostica di tutti i giorni per affrontare una diagnostica d’assalto, di emergenza continua. Il tampone dà un’indicazione sui pazienti da isolare. E questo, fin dal primo caso proveniente da Codogno, ci ha caricato di grande responsabilità».

L’Italia si scoprì colpita da un nemico invisibile e pericoloso. «Se è stato individuato lo dobbiamo a due giovani donne: Annalisa Malara, che era di guardia all’ospedale di Codogno quella sera, e Valeria Micheli, che era di turno al laboratorio di microbiologia del Sacco. Le due si sono messe in contatto, hanno deciso di sottoporre il paziente 1 al test per il Covid, adottato ancora solo a livello sperimentale, e hanno scoperto cosa stava succedendo. Valeria mi ha chiamato, sono corsa in ospedale e, con lei, ho ripetuto il test: positivo, ancora una volta. Da quel momento è cambiato tutto».

E precisamente? «È cominciata un’esperienza, professionale e umana, che ha portato a galla il meglio e il peggio».

Cominciamo dal meglio. «La solidarietà della gente. Sconosciuti che hanno subito creduto nel nostro lavoro e ci hanno dimostrato vicinanza e gratitudine inviando fiori, dolci, messaggi di affetto».

E il peggio? «In alcuni casi è mancata una reale comprensione fra gli esperti che si sono trovati a parlare l’uno contro l’altro, con gravi conseguenze. Il Covid ha rivelato aspetti di maschilismo che hanno inizialmente investito lo stesso Comitato tecnico scientifico».

L’opinione pubblica, invece, ha percepito un clima di grandissima incertezza. Mai cambiato, in realtà. «Siamo arrivati a questa pandemia impreparati. Il virus ci riserva ancora oggi sorprese. Il male più grande, però, è stato l’infodemia: un bombardamento di informazioni spesso discordanti e anche allarmistiche. Non a caso oggi registriamo molti casi di fobie e di psicopatie. Mai stati così numerosi come in questi ultimi mesi».

Ci sono ancora 400 morti al giorno in Italia. Cosa non ha funzionato nella lotta al Covid? «La comunicazione, sicuramente. Noi esperti in questo dovremmo recitare il mea culpa. Poi, a livello europeo, il contratto per i vaccini».

Siamo in ritardo? «Dopo aver firmato contratti per milioni di dosi, Pfizer ha cambiato il suo impegno. E ha potuto farlo perché non c’erano numeri scritti sui contratti d’acquisto».

Ingenuità o fretta? «Entrambe le cose. La fretta ha fatto sì che si stipulassero contratti a prescindere da ciò che serve per rendere una campagna vaccinale efficace».

Che fare? «La vaccinazione doveva partire dai più anziani e dai più fragili, che sono le persone più esposte, e continuare poi secondo le fasce d’età. Ora è fondamentale che l’Europa compri altri vaccini. Tipi diversi frazionerebbero i rischi di effetti collaterali».

Molti temono proprio questi. «Otto mesi sono pochi per conoscere quanti e quali sono. Ma siamo in piena emergenza: bisogna vaccinarsi senza se e senza ma. Il problema piuttosto è un altro».

Quale? «La battaglia non è solo dell’Occidente, è mondiale. I vaccini vanno garantiti a livello globale».

Ora l’allarme è sulle varianti. Chi ha avuto il Covid oggi cosa rischia? «Rischia che la copertura degli anticorpi sviluppati sia già esaurita e quindi che possa riprendere il virus come se non l’avesse mai contratto».

Come vede la nostra vita nel prossimo futuro? «Per i prossimi due anni, con la mascherina davanti alla bocca, il disinfettante e il distanziamento obbligatori. Non credo in nuovi lockdown, la gente non li capirebbe. Però per arginare i focolai sarà necessario chiudere i comuni con troppi casi, come in questi giorni».  

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