La Medaglia d’onore al tornitore Elsio Bassi

Il 97enne che lavorava alla Guzzi disse no al nazifascismo e venne deportato. I ricordi: "La fame nello stamnlager era tremenda, da togliere il sonno"

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di Daniele De Salvo

O con i nazifascisti o nei campi di concentramento. E lui ha scelto i lager. A preferire la deportazione e i lavori forzati ai repubblichini di Salò in quel drammatico mercoledì 8 settembre 1943 è stato l’oggi 97enne Elsio Bassi di Mandello del Lario, all’epoca soldato del Settimo reggimento Bersaglieri, uno degli ultimi lecchesi reduci internati ancora viventi. Aveva da poco compiuto i 18 anni ed era stato arruolato appena da pochi giorni in una caserma di Bolzano con la matricola 155896 impressa sulla piastrina in metallo che custodisce gelosamente. Per la sua scelta nel 1960 ha ricevuto la Croce al merito di guerra e dopodomani sarà insignito della Medaglia d’onore durante la Festa della Repubblica. "Dopo l’armistizio mi hanno chiesto da che parte volessi stare – racconta –. Ho scelto senza il minimo dubbio. Sono stato subito arrestato e fatto prigioniero dai tedeschi e deportato nello stamnlager XI B di Fallingbostel, vicino al campo di concentramento di Bregen Belsen in Bassa Sassonia". Lì ci è rimasto per più di 24 mesi, fino alla termine della Seconda guerra mondiale, per essere rimpatriato solo il 12 agosto 1945, a differenza di un suo fratello che invece dal fronte russo non è mai tornato a casa. "È stata dura – ricorda -. D’inverno la temperatura scendeva a – 20 gradi, mangiavamo solo una volta al giorno una ciotola di zuppa di acqua e cinque o sei pezzetti di rape gialle con una fetta di pane nero mista a paglia come animali. Dividevamo il pane intero di due chili in 12 pezzi. La fame era tremenda, da togliere il sonno...". Prima di essere arruolato lui era tornitore alla Moto Guzzi, dove poi al termine del conflitto ha ripreso a lavorare fino alla pensione, per questo è stato sfruttato in una fabbrica di Peine per produrre stampi per la fusione di bombe.

"Una settimana lavoravamo dalle 6 del mattino alle 18 del pomeriggio, la successiva dalle 18 alle 6 senza sosta – spiega -. La domenica era di riposo. Impiegavamo due ore di cammino all’andata, altrettante al ritorno. Con il primo turno mangiavamo al rientro nel lager alle 20, con il secondo prima di partire alle 16. Ogni tanto mi arrivavano dei pacchi mandati da mia mamma e riuscivamo a racimolare alcuni avanzi. L’igiene era scarsa, i pidocchi mi tormentavano". Si è salvato perché riusciva a dormire appena poteva nonostante la fame e per il suo fisico: "Mi ha preservato da malattie e infezioni che altrimenti mi avrebbero certamente ucciso, come purtroppo è accaduto a molti miei compagni meno fortunati".