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Oltre all’inflazione, negli ultimi mesi anche un'altra parola che sembrava ormai consegnata al passato è tornata di moda: la svalutazione. Tutti, o quasi, si ricordano della crisi valutaria del ’92, quando l’Italia, insieme al Regno Unito, fu costretta a uscire dal sistema monetario europeo e la lira perse circa il 30% del suo valore. Allora c’era il governo Amato, che varò il famoso prelievo forzoso sui conti correnti. Si dirà: era un’altra epoca. Certo, ma sta di fatto che l’euro, negli ultimi giorni, ha fatto un salto all’indietro di vent’anni e ormai oscilla sul filo della parità con il dollaro, mentre da gennaio si è deprezzato del 13%. Ieri la moneta unica ha chiuso a 1,005 sul biglietto verde e, con i venti di recessione che spirano sul Vecchio Continente, non è escluso che la sua corsa al ribasso possa continuare. Tuttavia, non è la prima volta che ciò accade. Tra aprile del 2014 e marzo del 2015, spinto dalla politica accomodante della Bce (taglio dei tassi e iniezioni di liquidità attraverso il quantitative easing), l’euro si era svalutato del 24% nei confronti del dollaro. Ma quali sono gli effetti per l’economia? Esportazioni incoraggiate dall'euro debole La prima cosa da considerare è che un euro debole incoraggia le esportazioni. I prodotti italiani, infatti, costano meno e, di conseguenza, aumentano le vendite di beni all’estero. Nello specifico, i settori che esportano molto negli Stati Uniti sono alimentare, farmaceutico, auto e moda. Tutti comparti che potrebbero essere avvantaggiati nella lotta per accaparrarsi ulteriori quote nel mercato locale. Va sottolineato, inoltre, che, anche con un euro forte, la bilancia dell’interscambio tra Italia e Usa pende dalla nostra parte. Sono anni infatti che il nostro Paese registra un sostanzioso surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2019 il saldo tra esportazioni e importazioni ...
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