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Massimo, il soldato di Cosa Nostra diventato angelo degli anziani malati

Dopo 25 anni di carcere decide di restare nel Pavese e fare il volontario di NICOLETTA PISANU

Massimo Rapisarda ex carcerato con Paola Fossati presidente Consulta del Volontariato

Massimo Rapisarda, quarantasette anni, è nato e cresciuto a Catania. Appena adolescente si avvicinò agli ambienti delle storiche famiglie mafiose della sua città, diventando un soldato di Cosa Nostra. Arrestato nel corso di un blitz, nel 1990 fu condannato a sedici anni per associazione a delinquere di stampo mafioso e trascorse i successivi sei anni nel carcere di Catania. Liberato nel 1996 per un vizio di forma, dopo un mese venne nuovamente arrestato sempre per la sua partecipazione alle attività dei clan, ma questa volta fu condannato a trent’anni di reclusione. In regime di 41 bis trascorse un anno al carcere dell’Asinara, poi sei anni in quello de L’Aquila, in seguito come sorvegliato speciale fu trasferito a Sulmona, dove restò dal 2001 al 2011, successivamente fu detenuto a Biella e, dal 2013, a Voghera fino al giorno della sua liberazione. 

Voghera, 3 gennaio 2016 - Massimo Rapisarda è timido. È ritroso, ma si illumina quando parla del volontariato che svolge tra gli anziani del centro Auser di Voghera: «Mi coccolano, sono la mia famiglia». Uscito dal carcere dopo venticinque anni, ha deciso di rimanere in provincia di Pavia per proseguire le attività benefiche. Ha un passato da mafioso, ma il suo presente è aiutare gli altri: «Mi fa sentire pulito. Mi fa stare bene».

Signor Rapisarda, per quale motivo è stato condannato? «Per mafia. Io ero un soldato di Cosa Nostra. In tanti anni ho praticamente girato l’Italia di galera in galera, fino ad arrivare a Voghera».

Come si è avvicinato agli ambienti mafiosi? «Ero un ragazzo, avevo sedici anni. Preciso che i miei genitori non sono mafiosi, io sono stato la pecora nera. Sono nato e cresciuto a Catania, in un quartiere difficile. È iniziato tutto con un adescamento, vedevo queste persone con le auto di lusso, che ci davano qualche lira. Mi hanno attirato con l’idea del guadagno facile, della ricchezza, poco a poco mi sono ritrovato vicino alle famiglie storiche di Catania. Da soldato partecipavo alle loro attività, mi davano dei compiti da svolgere, di tutto. A ventidue anni sono stato condannato la prima volta a sedici anni di reclusione, ma in carcere non mi sono pentito. Volevo dimostrare di saper fare la galera, come si dice in gergo. Mi sentivo parte del clan, me ne fregavo di tutto, ignoravo la possibilità di riscatto. Quindi, uscito dopo sei anni per un vizio di forma, ho ricominciato da capo».

Era ancora vicino ai clan? «La mia mentalità non era cambiata. Vedevo lo Stato come qualcosa da combattere. La mia fortuna è stata quella di venire arrestato nuovamente dopo poco tempo, altrimenti avrei proseguito su quella strada. Dopo un anno di 41 bis al carcere dell’Asinara e sei anni all’Aquila, sono stato trasferito a Sulmona. E lì, a un certo punto mi sono chiesto in che guaio mi fossi cacciato. Ho iniziato a studiare, ho preso la licenza media e poi il diploma da geometra. Più frequentavo i professori più mi allontanavo da quello che ero prima. Ero molto combattuto».

Ha collaborato? «Non ho mai parlato per scelta mia, perché non volevo che la mia famiglia corresse il rischio di ripercussioni. Per quanto avevo fatto, dovevo pagare solo io».

Quando è arrivata la svolta? «A Voghera ho iniziato a frequentare corsi di pittura e di teatro. Gli operatori sociali mi hanno molto aiutato. Poco più di un mese fa, il 28 novembre, alla fine di una recita mi hanno comunicato che ero libero. Appena uscito ho guardato il cielo, come un matto, non riuscivo ad abbassare lo sguardo».