Baby gang: cosa c’è dietro le rapine, il carcere e le cronache

A Milano, i reati delle bande di minori sono all’ordine del giorno e la pandemia ha amplificato il disagio giovanile. Ma la prigione non è la soluzione

Illustrazione di Arnaldo Liguori

Illustrazione di Arnaldo Liguori

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“Gli hanno strappato la collana, il mio amico li ha rincorsi e si è preso due coltellate. Per due centimetri non hanno colpito il polmone”. Una liceale descrive così l’incontro tra un suo amico e una baby gang. Ogni coetaneo ha una storia da raccontare. “Ho negato una sigaretta e mi hanno picchiato”. “Erano in otto, mi hanno fatto saltare un dente e mi hanno tagliato qui, in faccia”. “Siamo stati derubati con dei coltellini: volevano soldi”.

A Milano, dalla periferia al centro, le storie sulle baby gang sono sempre, più o meno, le stesse. Così come i protagonisti: ragazzi e ragazze, minorenni, violenti. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale adolescenza, il 6,5 per cento dei giovani tra 11 e 19 anni dichiara di far parte di una banda, il 13 per cento di loro ha compiuto un atto di vandalismo e tre su dieci hanno partecipato a una rissa.

Ma cosa sono, di fatto, le baby gang? Per la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza si tratta di gruppi di adolescenti, poco più che bambini, che riproducono dinamiche tipiche della microcriminalità organizzata. Il fenomeno è in aumento e benché molti membri provengano da ambienti degradati o problematici, non è sempre così. “Questi giovani – si legge nell’ultimo rapporto della commissione – provengono anche da famiglie di estrazione sociale medio alta e con un buon livello di istruzione”. Di solito, “operano una violenza sproporzionata nei confronti delle vittime che vengono individuate nei coetanei (anche in ambito scolastico), negli anziani, nei disabili e nei soggetti ai margini della società”. Ma soprattutto, delinquono.

“Baby gang uguale rapinette. Collane, telefoni, cose così. Pensano che siano robe piccole ma alla decima rapina ti fai degli anni di carcere”, spiega Don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria, che da oltre 40 anni accoglie e supporta minori in difficoltà. «La colpa è anche dei social – continua – perché il mondo che vedono lì è grandioso, efficiente, forte. Poi si guardano in faccia, guardano la casa dove abitano, il quartiere in cui vivono e lì nasce il disagio».

Pochi, in Italia, conoscono il contesto in cui nascono le baby gang come Don Gino. La sua fondazione aiuta ogni anno decine di giovani, dentro e fuori il carcere. “Ora ne ospito 14 a casa mia, molti sono usciti dal Beccaria senza un posto dove stare, né una rete familiare. Li aiuto come posso, a questi ragazzi serve una figura di cui possono fidarsi, che vede in loro un futuro e che li aiuti a progettarlo”.

Quando tratteggia il fenomeno, Don Gino fa una descrizione molto precisa del tipo di giovane che si associa a una banda. “Adolescente, bisognoso di impresa per dimostrare a sé stesso e al mondo di esistere, con un passato e un presente di povertà ed emarginazione. Poi c’è il gruppo, che è l’elemento che gli dà forza, e il partire verso i nemici. I nemici immaginari, che sono tutto il mondo, poi si identificano – perché c’è bisogno di identificarli – con quelli del quartiere di là, quelli che si vestono a un certo modo. Da lì nasce il comportamento illegale perché questa esibizione del proprio potere si esprime anche con la delinquenza”.

Finché non finiscono in carcere. O non rischiano di finirci. “In genere si finisce in carcere per i reati più gravi che possono andare dalle rapine, ai furti, alle lesioni particolarmente gravi”, spiega Marisa Marraffino, avvocato ed esperta di diritto minorile.

La percentuale di minorenni condannati a una pena detentiva è molto bassa. In Italia ci sono 316 minori in carcere, per l’85 per cento maschi e per metà stranieri. Mentre ci sono 13.611 ragazzi e ragazzi a carico dei servizi di giustizia minorili. “L'obiettivo è rieducarli. Un giovane in prigione è un fallimento per tutti, i genitori, gli insegnanti, i giudici, gli avvocati, l’intera società”.

Oltre che un fallimento, il carcere è anche tremendamente inefficace. Secondo i dati del Dipartimento per la giustizia minorile, il 60 per cento dei ragazzi che scontano una pena detentiva torna a commettere reati quando esce. Tra quelli sottoposti a una pena alternativa o a un percorso di recupero, invece, la percentuale di recidiva scende al 20 per cento.

“Aiutarli – dice Marraffino – non significa negare la responsabilità di quello che hanno fatto. Piuttosto aiutarli ad accettare che hanno fatto un errore e che da quell'errore si può e si deve ripartire. I ragazzi hanno bisogno di figure autorevoli che investano su di loro e cerchino di capire perché commettevano quegli errori. Alcuni di quelli che ho difeso erano aggressivi e violenti perché a loro volta avevano subito degli abusi. Per i minorenni il carcere può essere davvero qualcosa che aggrava un disagio già in corso. La responsabilità è nostra”.