Rodero, strangolò la maestra Nadia Arcudi: condannato vent'anni

Pena definitiva per il cognato della donna, il cui corpo fu ritrovato nei boschi il 16 ottobre 2016

Nadia Arcudi nel riquadro

Nadia Arcudi nel riquadro

Rodero (Como), 24 settembre 2018 - Ha rinunciato all’Appello del suo processo, rendendo definitiva la condanna a vent’anni di carcere per l’omicidio della cognata. Ma, allo stesso tempo, per Michele Egli, tecnico informatico di 43 anni, si prospetta l’archiviazione dei reati commessi in Italia: l’abbandono e l’occultamento del corpo della donna. Il suo avvocato italiano, Davide Bartulli, ha infatti depositato in Procura gli atti relativi alla sentenza di omicidio volontario letta lo scorso 18 maggio, diventata irrevocabile in Svizzera, che include anche l’occultamento del cadavere.

Nadia Arcudi, insegnate di scuola elementare di 35 anni, sorella della moglie di Egli, era stata colpita con una bottiglia di vetro e poi strangolata nella sua casa di Stabio la sera del 14 ottobre 2016, caricata nel baule di un’auto e scaricata in una zona boschiva di Rodero, dove era stata trovata due giorni dopo, la domenica. Addosso non aveva niente, e alla sua identificazione si era arrivati solo il lunedì, grazie al braccialetto di un’associazione benefica che aveva al polso, incrociato con le denunce di persone scomparse.

Nel giro di una settimana, era stato arrestato Egli, accusato di averla aggredita e uccisa all’interno dell’abitazione dove la vittima viveva con la madre, e di aver scaricato il cadavere nel Comasco, pochi metri dopo il confine, trasportandolo nel baule dell’auto. Le reali motivazioni di quel delitto, non sono mai emerse fino in fondo. L’aggressione, come era stato ricostruito nei mesi successivi, era avvenuta al termine di una lite legata a questioni familiari tra le sorelle e la madre, e in particolare alla proprietà della casa, sulla quale erano maturate tensioni. La condanna della Corte delle Criminali di Mendrisio, nel Tribunale di Lugano, aveva escluso la premeditazione, ritenendo che Egli avesse agito d’impeto.

«Volevo solo farla stare zitta – aveva detto davanti al giudice di Lugano – Aveva iniziato a urlare per i problemi che c’erano in famiglia per la casa, e l’ho colpita. Ero impietrito. Poi ho capito che era morta, e ho cercato di simulare un suo allontanamento dalla Svizzera. Non volevo far soffrire mia moglie, mia suocera e mia figlia». Tuttavia, anche quando era stato accertato che l’omicidio era stato commesso in Svizzera, il sostituto procuratore di Como Massimo Astori, aveva dovuto aprire un fascicolo per occultamento di cadavere, relativo alle condotte commessa da Egli sul territorio comasco. Ora, una volta accertato che per questo reato è già stato condannato in Svizzera, anche questa accusa sarà destinata a essere archiviata, in virtù del «ne bis in idem», vale a dire il divieto del doppio giudizio per gli stessi fatti.