Rezzato, morti per l’amianto alla Legnami Pasotti

Un anno e 4 mesi all’ex consigliere delegato dell’azienda fallita negli anni '90

Rimozione lastre di amianto

Rimozione lastre di amianto

Brescia, 20 ottobre 2019 -   Due dipendenti muoiono di mesotelioma anni dopo avere lavorato in fabbrica a contatto con le polveri di amianto, il giudice condanna il datore di lavoro un anno e quattro mesi. Così si è concluso  il processo che vedeva sul banco degli imputati per omicidio colposo Mario Pasotti, ex consigliere delegato della Legnami Pasotti, azienda di Rezzato che prima del fallimento negli Anni ‘90 produceva pannelli e serramenti per l’edilizia in cemento-amianto e legno. Consigliere delegato dal 1969 al 1994, il 71enne di Passirano rispondeva della tragica fine dell’operaio Giuseppe Di Fraia, tra il 1981 e il 1983 addetto alla costruzione e al montaggio dei pannelli contenenti amianto per prefabbricati edilizi che aveva anche allestito nelle zone terremotate dell’Irpinia. Di Fraia morì il 23 maggio 2012 in seguito a mesotelioma diffuso e adenocarcinoma polmonare.

Ma Pasotti, sotto indagine in origine con il consigliere delegato precedente (deceduto e dunque stralciato dall’inchiesta), rispondeva anche della morte di Noè Ghidoni, dipendente dal 1973 al 1994 e negli ultimi tempi direttore di produzione. L’uomo il 11 giugno 2015 fu stroncato da una emorragia subentrata dopo un intervento chirurgico per curare un mesotelioma pleurico sinistro. Per i consulenti del pm Corinna Carrara, che aveva chiesto una condanna a un anno e mezzo, l’insorgenza tra le neoplasie e l’intensa esposizione a polveri di amianto è provata, così come "la negligenza, imprudenza e imperizia e la violazione delle norme per l’igiene e la sicurezza sul lavoro" da parte dell’imputato. Pasotti infatti - guai pregressi con la giustizia per bancarotta e contributi non versati - non avrebbe adottato provvedimenti per impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri di amianto durante il taglio, la foratura, fresatura e levigatura dei pannelli. Per esempio non separando i settori produttivi e non installando areazione adeguata, non mantenendo pulito il locale ma anzi, utilizzando pistole ad aria compressa per pulire gli indumenti e le macchine o scope non bagnate e non dotando i lavoratori di maschere protettive.

"Io mi occupavo solo di vendite, giravo il mondo per contattare clienti", si è giustificato il 71enne in aula. Per il suo avvocato, Carlo Tinti, andava assolto: "La percentuale di amianto prodotta era infinitesimale e il nesso causale con l’insorgenza della malattia non è certo. In ogni caso, all’epoca la consapevolezza sui rischi da amianto non era quella attuale. E la prevedibilità degli eventi poi subentrati va messa in relazione alle conoscenze dei tempi". Il giudice Vincenzo Nicolazzo, però, ha sposato la tesi accusatoria.