Caso Macchi, una spiraglio per Lidia: "La verità dopo 27 anni"

La richiesta della madre ora che c’è una nuova pista. Dolore infinito: "Se davvero fosse lui il responsabile la vicenda si chiuderebbe. Ma la morte di una figlia non la superi mai" di Gabriele Moroni

Lidia Macchi (Newpress)

Lidia Macchi (Newpress)

Varese, 28 luglio 2014 - La vita non le ha risparmiato dolori e prove. L’ultima quella che da quasi un anno la vede ogni giorno in ospedale, accanto a Giorgo, il marito malato. Paola è la madre di Lidia Macchi. Ha appreso dai giornali che il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda ha depositato l’avviso di chiusura indagini nei confronti di Giuseppe Piccolomo, l’artigiano di 64 anni già all’ergastolo per l’omicidio di Carla Molinari a Cocquio Trevisago (il “delitto delle mani mozzate”, il 5 novembre 2009). Piccolomo è l’unico indagato per la morte di Lidia Macchi, trovata la sera del 5 gennaio del 1987 in un bosco alla periferia di Cittiglio, su una collinetta chiamata Sass Pinì. Martoriata da ventinove coltellate. Era un lunedì nuvoloso. Il 28 febbraio Lidia, secondo anno di giurisprudenza alla Cattolica di Milano, caposcout e militante di Comunione e Liberazione, avrebbe compiuto 21 anni.

Signora Macchi, crede a una svolta? «Tutto è possibile. A questo punto non so più cosa pensare e dire. Se fosse lui, sarebbe qualcosa, un risultato, e la cosa si chiuderebbe. Se non fosse lui, sarebbe tutto come prima. È uscito all’improvviso, dopo ventisette anni».

Da cosa può dipendere una svolta? «Da tante cose. Dipenderà anche da lei, da Lidia. Se lei lo vorrà».

Ha sperato, in questi anni? «La morte di un figlio non si supera mai. Anche se ho fede, a volte penso che il Signore ogni tanto dovrebbe guardare da un’altra parte. Prima Lidia, poi la malattia di mio marito. Non ho fatto in tempo a superare un problema che se ne apriva subito un altro. Se non avessi fede, sarei alla disperazione».

Com’è oggi la sua vita? «Da dieci mesi è in un ospedale, dalle dieci del mattino alle sette di sera. Ho fatto Natale, Capodanno, Pasqua. Sono fuori da tutto. I miei figli mi sono vicini. Ho avuto tre figli meravigliosi, mi hanno dato tante soddisfazioni. Poi, forse, ho pagato anche quelle in altri modi».

Una volta ha detto una frase sulla madre di una vittima e la madre di un assassino... «L’ho detto e lo ripeto. Non vorrei mai essere la madre di un assassino. Meglio essere la madre di Lidia che la madre di chi l’ha uccisa. Poi le cose avranno il loro corso».

In questi ventisette anni ha sempre creduto nella giustizia? «Ci credo ancora».

Alberto aveva dieci mesi quando la sorella venne uccisa. Alle elementari, raccontava alla suora che Lidia era morta in un bosco, era passato un cacciatore e l’aveva uccisa. «Con lo spostamento—dice— dell’indagine da Varese a Milano si è avuto finalmente un po’ di luce, anche se noi attendiamo il lavoro della giustizia con discrezione, senza odio». Per Alberto le indagini della procura di Varese hanno avuto «alcuni limiti che ora sono emersi, ma non sta a noi della famiglia dirlo». Fra questi “limiti”, anche la scelta di non fare uscire formalmente dall’inchiesta don Antonio Costabile, all’epoca responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia. Per il sacerdote, risultato definitivamente estraneo ai fatti, il sostituto pg Carmen Manfredda chiede ora l’archiviazione. «Noi - aggiunge Alberto - non dobbiamo trovare un colpevole a tutti i costi. Per noi Piccolomo è uno sconosciuto. Se un processo proverà che è stato lui, l’unico sollievo nel dolore sarebbe che a uccidere non è stata una persona che frequentava la nostra casa e noi proteggevamo».