In viaggio con i senzatetto italiani: l’ultimo treno per passare la notte

Salgono insieme sul Milano-Alessandria e ci restano fino al mattino. «Camminare e dormire da uomo libero non ha prezzo» di Giambattista Anastasio

Senzatetto sui vagoni del treno

Senzatetto sui vagoni del treno

Milano, 2 agosto 2015 - Dormono tutte le notti a bordo dell’ultimo treno per Alessandria, quello che parte dalla stazione Centrale di Milano alle 23.25. Sono nove ma riusciamo a conoscerne sette. Sono tutti italiani ma non ne troviamo due della stessa città. Sono tutti sulla strada ma ognuno ci è arrivato per avventure diverse. Si sono ritrovati a Milano: è qui che chiedono l’elemosina durante il giorno. Li unisce la lingua: «Nei dormitori, nelle mense, nelle docce pubbliche – spiega Domenico –, siamo minoranza. Italiani all’estero. Indifesi. Profughi, clandestini, nomadi: hanno tutti due possibilità. A noi, in casa nostra, ne hanno data una sola». Milano, la lingua e la necessità: «Dormiamo nello stesso vagone perché se stiamo insieme nessuno ci tocca» raccontano Franco e Carla. «Capita che marocchini o romeni salgano sul treno, a volte armati di coltelli, per derubare chi dorme nelle carrozze». «Ma noi – si impone Franco mettendo la sua voce sopra quella di tutti – non c’è Mammasantissima che ci impaurisca quando stiamo insieme». Del resto, «in alcuni dormitori come quello di viale Saponaro chiedono pure 50 euro al mese: da ricovero» dice Alberto

Rriferiscono che gli agenti della polizia ferroviaria li conoscono «nome per nome», sanno che dormono lì e tollerano. Non senza buon cuore. «Ma ad una condizione: niente casino». Sanno di Franco, 64 anni, salernitano, finito sulla strada dopo aver scontato 22 anni di carcere dall’Asinara a San Vittore. «Rifarei tutto», dice onesto. Ma non c’è materasso che valga la seggiola in finta pelle della Milano-Alessandria, non se quel materasso è in una cella: «Camminare e dormire da uomo libero non ha prezzo». Sanno di Alberto, bresciano, 24 anni, il più giovane di tutti, che in un anno ha dilapidato tra slot machine («spendevo 110-120 euro al giorno»), smartphone, cocktail e locali, l’eredità lasciatagli dal papà. Sanno di Carla, «la nonna», come viene chiamata nel gruppo in ossequio ai suoi 65 anni, milanese, a bordo col suo cagnolino: «Mio padre aveva una cartotecnica a Baranzate, c’è ancora l’insegna. Mi sono diplomata in lingue, ho sempre fatto una vita agiata, non ho mai avuto un lavoro continuativo, ma ho fatto tanto volontariato». Ora le onlus le vive dal fronte opposto. «Ero ospite di Casa Silvana, una casa-famiglia che ha chiuso il 10 luglio e fino a settembre. Per questo dormo sui treni».

Senzatetto sui vagoni del treno

E chiede l’elemosina insieme a Franco di fronte ad un supermercato. Manca quasi sempre un pezzo in queste storie: «Papà Guido ha venduto la ditta nel 2001 ed è morto nel 2005 senza mai spiegarci perché avesse venduto. È lì che sono iniziati i problemi: siamo rimaste io e mia madre, abbiamo preso una casa in affitto con la pensione di lei. Finché non è venuta a mancare e mi sono ritrovata senza nulla». C’è anche Domenico, 65 anni come Carla: «Faccio il barbone qui a Milano perché a Bolzano ero un artigiano conosciuto. Sono stato ingannato, sono stato usato come prestanome a mia insaputa, mi hanno intestato attrezzature edili, persino un’escavatrice da 52mila euro. E da vittima sono diventato ladro...».

Franco lo chiama «D’Artagnan» per via dei baffetti e del pizzetto, ma anche di una certa eleganza nel presentarsi: «Alla dignità non si deve mai rinunciare – dice –. Mi vesto bene finché posso, anche se così, agli occhi delle nostre istituzioni, non appaio abbastanza barbone da meritare aiuto». Domenico è separato e i suoi figli non sanno la verità: «Dico che sono in giro per lavoro. Che razza di padre sarei a coinvolgerli?». Per Silvana, 41 anni, in strada già da 20, Domenico è lo «zio». Sì, è come fossero una famiglia. E se è vero che gli scompartimenti dei treni hanno un loro destino, se è vero che affianco ad uno in cui si chiacchiera molto ce n’è sempre un altro in cui si tace altrettanto, il nostro, venerdì, era del primo tipo.

Ci diamo appuntamento al binario 15 della stazione. «Questo lo prendo io»: così sentenziando, appena saliti a bordo, Franco ci soffia via in un amen il biglietto. In Centrale può accedere ai binari solo chi ha un regolare ticket. Franco venerdì ha mostrato un biglietto vecchio di qualche giorno, trovato con l’aiuto della sorte perché non obliterato e quindi ancora valido. Chissà, magari già stanotte quando queste righe saranno in stampa, ricorrerà al nostro. Alle 23.31 siamo a Lambrate: Silvana sale qui perché in questa stazione di sbarramenti non ce ne sono. Alberto e Carla si sporgono dal finestrino per avvistarla e indirizzarla verso la carrozza giusta.

Ora il gruppo è riunito. Domenico prende a raccontare una barzelletta che finisce per essere un piccolo tormentone. C’è spirito. «Non mi sono mai arreso» dice Franco. «Non farò questa vita per sempre» assicura Alberto. Arriviamo ad Alessandria all’una. Ed è subito tempo di una piccola missione: ci sono bottiglie d’acqua da riempire per abbeverarsi durante la notte. I giardini di fronte alla stazione hanno due fontane, i ragazzi lo sanno. E si va. Una di queste non funziona, l’altra rigurgita acqua calda. Davanti ai giardini di corso Crimea c’è un bar di luci, coktail e belle ragazze. E noi proprio lì, a far scorrere l’acqua della fontanella perché si raffreddi. Torniamo in stazione che sono le 2, Domenico e Alberto accendono una sigaretta: «Vogliamo una seconda possibilità. Governo, Regione, Provincia, Comune: vogliamo una seconda possibilità». Il treno è fermo davanti a noi e come noi esausto. Lungo disteso sul binario 3 della stazione: «In Piemonte mi sono sposato» ricorda Domenico.

Le porte delle carrozze sono aperte e così rimarranno fino alle 5.12 del mattino, quando il convoglio ripartirà alla volta di Milano: potrebbe entrare chiunque nel frattempo. Accese pure le luci negli scompartimenti. Ma tutti riescono a dormire. Alle 4.48 la capotreno picchietta sui finestrini perché tutti si sveglino. Un solo occhio si apre a fatica e ne scorge la chioma bionda allontanarsi. Come i sogni. Sono le 6.35 quando arriviamo a Milano. Davanti ai tabelloni delle partenze uno sbarramento di occhi e trolley: partono tutti. Dribbliamo a fatica la folla in cerca di caffè. Appena fuori, Alberto si rigira a guardarla come stizzito. «Andiamo» lo rimbrotta, paterno, il vecchio Franco.

giambattista.anastasio@ilgiorno.net

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