Griffe in Galleria, stop a Milano. Il Tar blocca la delibera sugli affitti

Nel mirino gli accordi del Comune con Armani, Prada e Versace. Pisapia: 2Chi vuole rpendere il posto di un affittuario prima della fine delle concessioni deve raddoppiare il canone" di Massimiliano Mingoia e Nicola Palma

4 - L'ottagono della Galleria

4 - L'ottagono della Galleria

Milano, 28 agosto 2014 - Lo chiamano «il Salotto dei milanesi». Comodo, lussuoso, accogliente. Non certo in questi giorni di fine agosto. Specie per il sindaco Giuliano Pisapia e la sua giunta, costretti a fare i conti con una sentenza del Tar che rischia di rimescolare le carte in Galleria Vittorio Emanuele. 

Complesso monumentale da cartolina incastonato tra il Duomo e la Scala, la sua gestione è stata rivoluzionata un paio d’anni fa dagli amministratori di Palazzo Marino. La riforma ha di fatto agevolato i subentri all’Ottagono, a una condizione: chi vuole sostituire un affittuario prima della scadenza naturale delle concessioni (durata di 12 anni) deve impegnarsi a pagare il doppio del canone. Ostacolo tutt’altro che invalicabile per le griffe dell’alta moda, intenzionate a conquistare un posto al sole in uno dei luoghi più frequentati della città, specie in vista dell’Expo.  Così, a cavallo tra 2012 e 2013, le griffe sono riuscite a farsi largo in Galleria. Come? Staccando sontuosi assegni per convincere chi c’era già a farsi da parte: Versace ha dato 15 milioni di euro alla famiglia Bernasconi, titolare di una delle più storiche argenterie della città; Armani ha fatto lo stesso col cravattificio Zadi, scucendo 7,5 milioni. E infine Prada, nata proprio nel Salotto un secolo fa: la casa di moda ha versato 6,5 milioni nelle casse della Feltrinelli per accaparrarsi due delle tre vetrine occupate da Ricordi Media Store.  Non basta. Versace e Prada si sono pure impegnate a contribuire al restauro delle facciate, pagando due terzi (3 milioni su 4,5) dell’intervento conservativo attualmente in corso. E ora? Tutto è stato rimesso in discussione dal Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha decretato l’illegittimità della delibera del 2012 e riportato in auge le vecchie regole fissate nel 2007 dall’allora sindaco Letizia Moratti. Dure anziché no le motivazioni dei giudici, che hanno sostanzialmente accusato l’attuale Giunta di pensare solo al vil denaro: 

«Si tratta di una disciplina — ha messo nero su bianco il collegio presieduto da Domenico Giordano — che da un lato svilisce per esigenze di cassa l’interesse alla tutela della concorrenza e dall’altro fissa arbitrariamente un corrispettivo di concessione del tutto svincolato da analisi di mercato e dal risultato economico che l’amministrazione dovrebbe conseguire attraverso l’attivazione di una procedura pubblicistica». E ancora, «si tutela l’interesse particolare e meramente economico del concedente in maniera esorbitante, senza un’ adeguata considerazione degli interessi pubblici e privati».  Tradotto: tutto da rifare. In Comune è già partita la controffensiva: nei prossimi giorni, l’amministrazione ufficializzerà la decisione di ricorrere in Consiglio di Stato per ribaltare il verdetto. «Siamo convinti di aver perseguito il bene collettivo — rivendica il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Se oggi la Galleria vive il restauro più importante degli ultimi vent’anni, lo dobbiamo anche a quelle scelte trasparenti».  Che, tutto compreso, hanno portato a un incremento della redditività degli spazi pari al 76%. Dichiarazioni e risultati che non bastano a placare la polemica politica. Sia da destra che da sinistra. Sì, perché alle prevedibili proteste dell’opposizione, che chiede da tempo l’istituzione di una commissione d’inchiesta e attende con ansia le conclusioni delle indagini della Corte dei Conti sui casi Armani e Versace, si è aggiunta la voce storicamente critica del presidente del Consiglio comunale, Basilio Rizzo: «Forse sarebbe meglio riscrivere la delibera», ha suggerito. Si vedrà.

di Massimiliano Mingoia e Nicola Palma

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