Red Hot Chili Peppers senza tempo: ritmo, rock & adrenalina in concerto

Venerdì sera il leggendario gruppo all'Ippodromo San Siro

Flea, Chad Smith  e Anthony Kiedis sono il nucleo storico  della band

Flea, Chad Smith e Anthony Kiedis sono il nucleo storico della band

Milano 21 lugio 2017 - I numeri  parlano chiaro. E quelli della rivista americana «Pollstar» dicono che, con 60.5 milioni di dollari incassati finora, il «Getaway World Tour» dei Red Hot Chili Peppers è il sesto evento rock più redditizio del 2017 dopo quelli di Guns N’Roses, U2, Justin Bieber, Metallica e Depeche Mode. Un kolossal rock che deposita stasera il baffuto Anthony Kiedis, Flea, Chad Smith e Josh Klinghoffer (affiancati dai tastieristi Nate Walcott e Chris Warren, oltre che dal tecnico Samuel Bañuelos III, al basso in «Go robot») sul palco dell’Ippodromo di San Siro per il più atteso appuntamento del «Milano Summer Festival».

I Peppers approdano in città per l’ultimo scampolo italiano di tournée in compagnia dal duo elettronico americano dei Knower, al secolo Louis Cole e Genevieve Artadi, nel ruolo di supporter. «Con Flea siamo una coppia di fatto, anzi due sposi con la fortuna di non convivere ventiquattro ore su ventiquattro sotto lo stesso tetto - spiega Kiedis, classe 1962, che in fatto di convivenze sa il fatto suo essendo passato in otto anni dalla modella americana Heather Christie, madre del suo piccolo Everly Bear, all’australiana Helena Vestergaard, alla ventiduenne brasiliana Wanessa Milhomen -. Forse il segreto sta proprio lì: nel fatto di essere “sposati”, ma rimanendo ciascuno a casa propria. Ad essere sinceri, non so nemmeno io come facciamo a durare, a trovare un equilibrio tra le nostre personalità e i nostri egoismi. Ogni tanto litighiamo e urliamo, ma poi ci abbracciamo e, soprattutto, non perdiamo mai il rispetto reciproco».

Una ventina i brani in repertorio; quattro o cinque provengono dall’ultimo album, mentre il resto pesca per lo più da «Blood sugar sex magik» e da «Californication», senza tralasciare ovviamente passaggi obbligati o quasi come «By the way» o «Look around», né qualche cover in bilico tra i Beatles e Jimi Hendrix, i Joy Division e Stevie Wonder. Rispetto a certi tour del passato, la scaletta è abbastanza libera e questo lascia aperta ogni sera la porta a sorprese.

Anche  per un suono tolto dopo venticinque anni dalle mani del vate Rick Rubin (interessato al momento, sembra, a Jovanotti - sì, avete letto bene) per affidarlo a quelle di Brian Burton, alias Danger Mouse. «Lavorare con Brian è stato fantastico, abbiamo molti pezzi che non siamo riusciti a mettere in «The Getaway», l’ultimo album - prosegue il cantante -. Vent’anni fa avevamo di sicuro più energia in corpo, salivamo sul palco con più sfrontatezza, mentre oggi dobbiamo un po’ gestirci, ma viaggiare e suonare è ancora adrenalina pura perché non c’è niente che riesca ad esaltarci di più del condividere la nostra musica con chi viene ad ascoltarci.Qualcuno dice che siamo diventati più pop, ma io, sinceramente, non me ne sono accorto. Ci piace suonare e finché la cosa rimane divertente, bene, quando non lo sarà più penseremo ad altro».

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