Keith Haring, non chiamatelo graffitaro: a Milano le radici colte del maestro pop/ VIDEO

Mostra a Palazzo Reale per il genio della street-culture newyorkese

La mostra (Foto Omnimilano)

La mostra (Foto Omnimilano)

Milano, 21 febbraio 2017 - I quadri “untitled” (senza titolo) di solito mettono a disagio, se si accumulano numerosi in una mostra. Lo sono quasi tutte le 110 opere riunite per “Keith Haring. About Art” a Milano, Palazzo Reale (fino al 18 giugno, catalogo GAmm Giunti/24Ore Cultura). Ma il pubblico, già in coda alla presentazione, come non mai invaghito a scattare selfie, specie nella sala rivestita con i 24 pannelli del grande murale “untitled” 1985 (per una casa di cura di San Francisco), dichiara il proprio entusiasmo. In sintonia con i critici, che non danno molta importanza ai titoli: di solito scelti non dall’artista ma da qualche amico intellettuale. E in sintonia con l’artista, che lascia allo spettatore la responsabilità d’interpretarlo come vuole. «IO DIPINGO immagini che sono il risultato delle mie esplorazioni personali, lascio agli altri il compito di decifrarle, capirne i simbolismi e le implicazioni», così diceva Haring, spiegando ulteriormente: «Alla fine, sono uno che narra una storia con un finale abbastanza aperto a disposizione di ognuno per divenire parte di lui...».

Non chiamatelo graffitaro, per favore. Il curatore Gianni Mercurio insiste nel ricordare che questo protagonista della street-culture newyorkese degli anni Ottanta lasciò il segno - inconfondibili segni tracciati con una bomboletta spray in un’unica linea continua - dopo che i portoricani e gli italiani e i cinesi avevano iniziato a farsi notare negli anni Settanta come writer di spazi pubblici. Il percorso artistico di Haring, nato nel ’58 in Pennsylvania da un padre ingegnere con l’hobby del radioamatore e dei fumetti, incomincia semmai accanto a lui: scambio di schizzi anche ad occhi chiusi. Non manca infatti Topolino in mostra, oltre alle sue tipiche icone tanto celebrate persino sulle magliette, “il cagnolino che danza”, “il neonato raggiante”, o l’omino con la televisione al posto della testa. E il percorso espositivo intende riscoprire il complesso rapporto con tanti altri maestri: cubisti, espressionisti, futuristi. Inserendo una “Femme nue” di Picasso, 1907, piuttosto che una “Composizione con cavallo” di Pollock, 1937, e uno “Stuprum Delirium” di Paul Klee, 1939. A introdurre nella sezione “Etnografismo” provvede comunque Keith: «Mi interessavano le immagini azteche perché somigliavano ai miei disegni e mi interessavano le cose africane e degli indiani d’America perché ci vedevo il mio riflesso».

La vera sorpresa però sta dove si possono scoprire le fonti prese a prestito dal passato, per lo più volontariamente occultate. Nell’immaginario fantastico di Haring si alternano infatti i riferimenti alla Bibbia, magari citata passando per Chagall, o alla classicità della Colonna Traiana, riprodotta in un modellino e in spettacolari calchi. E agli altaroli portatili del Trecento: vedi quello con Madonna, Bambino e Santi di un anonimo fiorentino, accanto al postmoderno trittico Altarpiece in bronzo con patina di oro bianco, 1990. Dai bestiari di ogni epoca attinge in abbondanza: la lupa capitolina (simbolo non di Roma ma di maternità), o l’arpia, fonte di sventura: eccola in “Walking in the rain”, 1986, l’anno in cui l’autore sa che morirà di Aids, nel 1990. Diventato maestro della pop art alla portata di tutti, si congeda con un titolo senza equivoci nell’immagine icona della mostra “Unfinished painting”, 1989, ultimo di cinque lavori realizzati dopo un viaggio in Marocco, ispirato dagli arabeschi: amalgama di astrazione e naturalismo, per dire che la fine di ogni ciclo contiene il germe di un nuovo inizio.

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