George Romero: l'horror con l’anima l’ha inventato lui

Il Mic dedica un omaggio in sei film al regista appena scomparso

John Amplas nel film “Martin” uscito nel 1978

John Amplas nel film “Martin” uscito nel 1978

Milano, 18 agosto 2017 - Come "padre" dei furiosi non-morti cannibali, al cinema, George A. Romero, scomparso un mese fa, fu un padre gentile, accurato, sempre disposto a sistemare per bene brandelli di carne e ossa umane tra i denti di facce congestionate con occhi da ipertiroidei, ed è un eufemismo, perché a volte gli occhi pendono sulla guancia. Questo tanto per ricordare che nei suoi film più celebri Romero raggiungeva metafore antropologiche, sociali e politiche occupandosi di visioni macabre - come il suo amico, estimatore italiano, mastro Dario Argento (si conobbero a una cena in America e fu amore a prima vista) - in contesti da action-movie, dal protocollo del nuovo film horror splatter stabilito con “La notte dei morti viventi” (1968, in bianco e nero) all’aggiornamento del quarto episodio “La terra dei morti viventi” (2005). Occhiali rettangolari più grandi della faccia, capace di centrare le nuove paure della “civiltà” post Hitchcock, Romero è al centro del tempestivo omaggio di Fondazione Cineteca (da oggi all’1 settembre al Museo Interattivo) nella rassegna “Paura in Terrazza”.

Nato a Pittsburgh nel 1940 e morto il 16 luglio scorso a Los Angeles, emerso dal movimento di cineasti indipendenti della grande crisi hollywodiana degli anni ‘60, è giudicato il più importante regista horror americano, riuscendo a rimettere in gioco e, diciamola la parola, rivoluzionare quel genere popolare con un linguaggio del terrore e del perturbante parallelo e contaminato con la critica alla società consumista e desensibilizzata in fermento negli Stati Uniti in quegli anni.

Sei i titoli in rassegna: l’immancabile “La notte dei morti viventi”, opera oscura e pessimista sulla fine del mito americano, incrociata per metafora con la guerra nel Vietnam (100mila dollari per farlo, 5 milioni d’incasso al momento, 18 milioni inseguendo la sua fama); “La città verrà distrutta all’alba” (1973), thriller di denuncia sull’utilizzo di armi chimiche e le conseguenze sulla popolazione (ancora un riflesso dal napalm del Vietnam); “Martin” (1978), uscito anche come “Wampyr”, ma il giovanotto protagonista è un disadattato sociale che scivola nella violenza; “Zombi” (1979), rieccoci con i non-morti, fu la continuazione del primo film e riuscì «a trasfigurare l’orripilante materia narrativa, all’insegna di una misantropia che non risparmia niente e nessuno» (Il Morandini); “Il giorno degli zombi” (1985), il terzo capitolo, meno visto ma non meno apprezzabile, una visione apocalittica del futuro che parte dall’occupazione degli Zombi del pianeta; infine il citato “La terra dei morti viventi”, penultimo capitolo prima di “Diary of the dead - Le cronache dei morti viventi” (2007), accolto dieci anni fa in concorso alla Mostra di Venezia di Marco Muller, un coraggioso riconoscimento di statuto magistrale del compianto Romero.

 

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