Recitare è un piacere fisico. Con Testori rasenta l’estasi

Fabrizio Gifuni porta in scena al Franco Parenti 'Il dio di Roserio'

Fabrizio Gifuni

Fabrizio Gifuni

Milano, 29 aprile 2017 - Una lunga relazione testoriana. Iniziata vent’anni fa. «Fui invitato a RadioTre per “L’Arialda” con Mariangela Melato. E anche in quel caso devo ringraziare Giuseppe Bertolucci, presenza decisiva nel mio percorso artistico». Scontato allora che Fabrizio Gifuni prima o poi decidesse di portare Testori a teatro. Protagonista di uno dei suoi “momenti performativi”, in cui ha già ripercorso le pagine di Gadda, Pasolini, Camus, Cortazar. Piccoli gioielli. Che ora si arricchiscono del primo capitolo de “Il dio di Roserio”, dal 3 al 6 maggio al Franco Parenti. Breve romanzo d’esordio, racconta di un gregario di ciclismo. Giovane uomo diventato “scemo” dopo una caduta causata dal collega campione. Un onirico flusso di coscienza. Da un letto d’ospedale.

Gifuni, come mai ancora un testo non teatrale?

«Perché vi ho intravisto enormi potenzialità sceniche, dopo la lettura di due anni fa su suggerimento di Giuseppina Carutti. Una grande energia. È poi un piacere tornare al Franco Parenti, dove hanno debuttato tutti i miei primi lavori e che è stato una seconda casa anche per Testori».

Eppure ultimamente è facile associarla al Piccolo…

«La “Lehman Trilogy” è stata un’esperienza irripetibile, nata dopo una misteriosa, ultima chiamata di Ronconi. Pensi che l’avevo conosciuto trent’anni prima in Accademia e poi non c’eravamo più incontrati né cercati. Un grande regalo. Ma con il Parenti ho un debito di riconoscenza e un legame ininterrotto».

Cosa caratterizza “Il dio di Roserio”?

«Il discorso della lingua è centrale. Come spesso succede con gli autori agli esordi, si nota un coraggio quasi incosciente nel mostrare quello stile che poi col tempo si modulerà, affinandosi. È forse il libro che più si avvicina per assurdo agli ultimi testi. Perfino a quel capolavoro di “In Exitu”, di cui ricordo la grandissima interpretazione di Franco Branciaroli».

Difficile dimenticarla.

«Io rimasi sotto choc per tre giorni. Violentissimo, la voce e il corpo di Branciaroli che si donavano completamente a questa lingua che già ne “Il dio di Roserio” è sperimentale, ostica. Tanto che all’epoca consigliarono a Testori di toglierlo, dopo la prima edizione del 1954 per Einaudi. Persino Calvino glielo fece presente, suggerendogli almeno di mettere in corsivo i vari salti temporali. Credo che l’aneddoto faccia capire il livello di sperimentazione».

Lei sta diventando una specie di baluardo della lingua italiana.

«È una cosa che continua a emozionarmi. Credo che la mia esperienza di lettore sia ormai profondamente intrecciata al lavoro d’attore. Ho l’impressione che le parole transitino solo occasionalmente sulle pagine, ma in realtà è come se fossero scie luminose che nascono nei corpi dei loro autori per poi staccarsi e arrivare fino a noi attori. Per questo parlo di esperienza fisica con la propria lingua. Un qualcosa che ci determina e ci dona identità. Noi siamo anche le parole che decidiamo di usare e di pensare».

Trova nei colleghi la stessa attenzione?

«Può essere un aspetto declinato in modi diversi. Non è un obbligo, altrimenti come a scuola rischi di avere risultati opposti, basti pensare alla bellezza de “I Promessi Sposi”. Tanti colleghi hanno un rapporto vivacissimo col proprio lavoro, altri sono più distratti e spesso muovono da un fraintendimento: che queste scelte siano gravose, pesanti».

E invece?

«E invece c’è prima di tutto un enorme piacere fisico che cerco di trasmettere al pubblico. Non faccio spettacoli per addetti ai lavori. E poi c’è l’aspetto ludico, il gioco. Con la lingua è un po’ come tornare bambini: puoi inventare interi mondi immaginari».

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