Rachel, lasciata morire in corsia: la prescrizione salva le infermiere

Aveva 14 mesi. Ma sette anni non bastano per la sentenza definitiva

I genitori di Rachel Odiase in marcia per chiedere la verità

I genitori di Rachel Odiase in marcia per chiedere la verità

Milano, 2 novembre 2017 - Tempo scaduto. Arriva la prescrizione a salvare le sette infermiere accusate (insieme a due medici già condannati) di non aver mosso un dito per impedire che la piccola Rachel Odiase, bimba nigeriana di appena 14 mesi, morisse disidratata per una banale gastroenterite all’ospedale di Cernusco sul Naviglio, ormai più di sette anni fa. In tribunale le assistenti sanitarie erano state tutte condannate a un anno di reclusione per omicidio colposo. Ma i giudici della quinta corte d’appello hanno deciso che servisse una nuova perizia medico legale sulla morte della bimba. La sostituta pg Lucilla Tontodonati si è opposta con forza, sostenendo che di consulenze ce n’erano in abbondanza agli atti dei procedimenti già conclusi. Ma la Corte non si è fatta convincere, segnando di fatto la chiusura del processo per scadenza del tempo. «Se la bambina fosse stata a casa sua sarebbe ancora viva, perché quello che è stato fatto in quell’ospedale lì è questo...», scrisse nelle motivazioni della condanna di primo grado il giudice Olindo Canali. «Se solo una delle delle infermiere professionali avesse ottemperato agli obblighi giuridici propri nei confronti della piccola - concluse scandalizzato - Rachel sarebbe ancora in vita». E pensare che quella maledetta sera del 2 marzo del 2010 Tommy Odiase, il papà della bimba arrivò a chiamare i carabinieri perché i medici del Sant’Uboldo non volevano nemmeno ricoverarla quella piccina sofferente per la gastroenterite. Da lì in poi nessuno si preoccupò della sua lenta disidratazione, secondo i periti medico-legali unica causa della morte.

La mamma Linda chiese ripetutamente che qualcuno facesse qualcosa per lei, ma all’alba del 5 marzo, dopo una flebo fatta la sera del 4, Rachel morì. Un destino crudele e beffardo. Il medico B. R., condannata in primo grado a 4 anni per omicidio colposo, ha visto ridotta in appello la pena a un solo anno, ormai definitivo. Il suo collega G.D. ha incassato un anno e mezzo, mentre la dottoressa M.A. è stata assolta definitivamente. Il dramma di Rachel e della sua famiglia, con sullo sfondo perfino una sospetta vena di razzismo fatta balenare da uno dei giudici ma mai provata, colpì fortemente l’opinione pubblica e scosse anche la politica dopo la presentazione di un’interpellanza parlamentare. Ma i tempi della giustizia italiana sono quello che sono e la ricerca della verità processuale ora si deve arrestare. A carico delle infermiere c’era non solo «la grave mancanza di interlocuzione con i medici» ma pure il «mancato adempimento di specifici doveri di monitoraggio, di verifica, di controllo delle condizioni di Rachel» a partire «dalla mancata registrazione - e quindi comparazione - della quantità di liquidi ingeriti e dei liquidi persi (...) alla frammentaria annotazione delle scariche diarroiche, dal mancato monitoraggio della temperatura corporea all’omessa misura del peso corporeo». Una condotta senza senso.

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