Il braccio di ferro sui marò piega i manager lombardi: «L’India ora è impossibile»

Gli imprenditori: un errore non aver chiamato l’Europa. "Qui se avviene un incidente per strada e si uccide, si negozia con la famiglia" di Rossella Minotti

I due marò Girone e Latorre

I due marò Girone e Latorre

Kochi, 7 aprile 2015 - Chi si meraviglia perché l’Alta Corte di Delhi ha dato dignità giuridica alle millenarie divinità Indù come Brahma, Shiva e Vishnu, ancora non sa di essere arrivato nel Paese delle immense contraddizioni, dove ci sono sia una legge che nega l’esistenza delle caste sia un’altra che garantisce quote di posti di lavoro alle caste inferiori. In questo scenario non c’è da stupirsi se la vicenda dei due marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre continui a trascinarsi dopo tre anni senza sbocco apparente e mettendo sempre più a rischio i rapporti economici tra la locomotiva d’Italia, la Lombardia, e l’India. Un’ostinazione apparentemente inspiegabile, quella indiana, nel voler giudicare sul proprio territorio i due marò e che si spiega invece con i troppi errori commessi, specie all’inizio, da parte italiana nell’affrontare il caso. Che ha già prodotto un danno evidente, culminato nella mancata partecipazione dell’India a Expo 2015.

VISTO DAGLI INDIANI - Navighiamo a tre anni di distanza sulla scia della diffidenza e sulle orme dei due sfortunati militari italiani accusati di aver ucciso due pescatori indiani al largo di Kochi, sulla costa del Kerala. In questa città che ha “solo” un milione e mezzo di abitanti (pochi in confronto ai 22 milioni di Mumbai, un tempo Bombay) nessuno sa nulla ma tutti sanno tutto. Unni, insegnante, si fa portavoce della atavica ritrosia degli indiani nei confronti dell’alcol (molti alberghi, anche di alto livello, non ne hanno): «Qui la gente pensa che i marò fossero ubriachi e che abbiano sparato per questo». «This is India» dice l’autista Mohan. Il suo è un sorriso che si culla fra la rassegnazione e l’orgoglio. I due pescatori uccisi facevano parte del 20 per cento della popolazione del Kerala di fede cristiana, una minoranza molto credente e rispettata. Sulla presunta colpevolezza dei nostri marinai, nessun indiano ha dubbi. E quando parliamo di pirati tutti sgranano gli occhi. «Impossibile che abbiano scambiato i pescatori per pirati, è una storia assurda» dice il ristoratore Saji.

«Pirati? Non ci sono pirati qui - afferma decisa Nandini, proprietaria di un negozio di stoffe e sari - sono verso la costa arabica. Se abbiamo qualche problema in Kerala è con le barche che sconfinano dallo Sri Lanka. Comunque li abbiamo trattati bene i vostri soldati, non sono mica andati in prigione, sono andati in una guest house in Willingdon Island». Dinesh, professione guida turistica, pensa invece sia una questione squisitamente politica: «Quando ci furono gli omicidi governava a Delhi il Congress Party di Sonia Gandhi (qui sempre e solo considerata una straniera, ndr) che ovviamente voleva favorire gli italiani, ma poi ha preso il potere il Bjp di Narendra Modi, che prima era all’opposizione e ora fa tutto il contrario. Comunque lasciare liberi i marò sarebbe un insulto alle famiglie delle vittime che vogliono solo un giusto processo, vogliono che la sentenza sia emessa qui, poi possono anche rimandarli in patria a scontare l’eventuale pena». Scenario questo plausibile, condiviso anche dal giurista Benedetto Conforti che ha analizzato il complesso caso.

Il processo però è difficile, il Kerala è stato per anni comunista e anti imperialista (non si contano le bandiere rosse e i sindacati hanno i poster con Che Guevara) e anche se i rapporti con l’Italia vengono definiti “buoni” certo a livello culturale non si favorisce l’Occidente. E comunque, quello dei nostri due marò non è certo il problema principale per l’immensa popolazione indiana. Quanto ai giornali indiani, dopo l’acceso dibattito iniziale tra favorevoli alla detenzione dei marò e contrari che propendevano per un rimborso alle famiglie e un loro ritorno liberi in Italia, dopo l’ultimo rinvio d’udienza al primo luglio ora si limitano a brevi trafiletti.

VISTO DAGLI ITALIANI - Ufficialmente nessuno ne parla, ma dietro le quinte tutti ne parlano, soprattutto i manager lombardi che qui hanno aperto aziende piccole e grandi. Le dichiarazioni delle nostre istituzioni presenti nel Paese si limitano a un generico «La magistratura in India è indipendente e sta facendo il suo corso», ma la preoccupazione degli operatori economici è forte. Con la garanzia dell’anonimato qualche italiano parla chiaro: «Come sono andate le cose? Qui le imbarcazioni dei pescatori sembrano relitti, non sono certo i nostri pescherecci: quindi magari i marò si sono spaventati e hanno sparato» dice un dirigente d’azienda. Si sbilancia molto di più un country manager milanese che vive a Pune, è qui da oltre quattro anni e parla fluentemente l’hindi: «Gli indiani dicono che non ci sono pirati? E allora cosa ci fanno i marò sui mercantili? E soprattutto, cosa ci facevano dei semplici pescatori lì se non pensavano a un abbordaggio? Comunque inutile entrare nel merito, così come irrilevante è la questione se fossero o meno acque territoriali. Il punto è che questo enorme problema che sta uccidendo le relazioni commerciali è sorto perché l’approccio iniziale è stato sbagliato».

Il Paese liberato dal colonialismo inglese grazie al Mahatma Gandhi non è in realtà quello della non violenza. Spiega il manager italiano: «Questo è per tanti versi un Paese primitivo e feroce. Se avviene un incidente per strada e si uccide qualcuno, si negozia con la famiglia la cifra di indennizzo e la cosa finisce lì, perché sono poverissimi e a loro interessano solo i soldi. Le cifre poi sono basse: un rimborso, per persone che guadagnano spesso a malapena 100 euro l’anno, rende più conveniente la morte rispetto a una vita di lavoro. L’errore è stato trasformare l’incidente in una questione di Stato».

Antonio, sales manager torinese, aggiunge: «Anche sul merito poi le complicazioni sono tante. Bisognerebbe vedere se davvero erano acque internazionali, siamo in un Paese dalla corruzione infinita, e le forze dell’ordine misero subito sotto sequestro il Gps... Se io e il mio autista abbiamo un incidente, non andiamo dalla polizia, cerchiamo subito un accordo per il risarcimento...». Un altro manager brianzolo fa notare che «il nostro ambasciatore dell’epoca non fu chiamato dal capitano della nave che ha attraccato in Kerala. Il problema andava gestito ufficiosamente, come gli indiani fanno con tutto. Poi è scappato di mano, e non era pensabile non far rientrare i marò in India dopo le feste di Natale: qui minacciavano di violare la sede consolare, una cosa gravissima. Una cosa è certa, in un Paese dove i poveri non hanno diritti, abbiamo dato loro un’opportunità di riscatto sociale: quello che loro qui di solito non possono avere, un processo giusto».

Intanto Girone e Latorre si consumano nella loro vita sospesa tra un mondo e l’altro, con l’Alta Corte che imputa i ritardi ai ricorsi degli avvocati italiani. «Ne parlavo prima col nostro console a Mumbai» dice Anna, la preoccupazione disegnata sul sorriso affaticato di chi ha dovuto varare una società di servizi in un mare di difficoltà. «Questo problema sta di fatto bloccando le nostre relazioni commerciali. L’India vive ancora molto sulle aziende pubbliche e dove c’è di mezzo lo Stato, il rapporto economico con l’Italia ormai non esiste, persino la Confindustria ha annullato tutte le missioni. E questo perché l’approccio è stato sbagliato, andava subito chiamata l’Europa e andava trovato un accordo».

TEMPI IMPREVEDIBILI  - L’India, immenso Paese nazionalista, chiuso su se stesso e con problemi sociali enormi, per il Made in Italy è adesso un’opportunità e al tempo stesso un Paese impossibile. L’ultimo grande mercato del pianeta si è cristallizzato nell’attesa di un giudizio che, con i tempi lunghissimi insiti nel cuore di una religione millenaria rimasta pericolosamente intatta, rischia di perdersi in un magmatico orizzonte legislativo. Impossibile fare previsioni. Qui, dove la maggioranza della popolazione si affida agli astrologi per scegliere il nome dei figli, dove le donne devono portare una dote in oro e non possono scegliere il marito, dove i grattacieli di pochi multimilionari svettano su un oceano infinito di casupole e senzatetto, può accadere tutto e il contrario di tutto. Perché alla fine, come dicono tutti qui, nel bene e nel male “l’India è India”, ed è più facile viverla che capirla.