Bossetti non conosceva Yara: "Il dna è rimasto sui vestiti solo perché lui l’ha aggredita"

Nulla è cambiato nel quadro accusatorio. Niente ha scalfito gli «indizi gravi» che dal 16 giugno blindano in carcere Massimo Giuseppe Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’istanza della difesa si fonda su una «rilettura critica» dell’ordinanza di custodia cautelare, «senza alcun apporto derivante da indagini difensive e/o tecniche scientifiche, ma alla luce del tempo trascorso dall’appplicazione della misura alternativa» di Gabriele Moroni

Yara Gambirasio e Massimo Bossetti

Yara Gambirasio e Massimo Bossetti

Bergamo, 17 settembre 2014 - Nulla è cambiato nel quadro accusatorio. Niente ha scalfito gli «indizi gravi» che dal 16 giugno blindano in carcere Massimo Giuseppe Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’istanza della difesa si fonda su una «rilettura critica» dell’ordinanza di custodia cautelare, «senza alcun apporto derivante da indagini difensive e/o tecniche scientifiche, ma alla luce del tempo trascorso dall’appplicazione della misura alternativa». In cinque pagine (più una di accompagnamento), il gip di Bergamo, Vincenza Maccora, motiva la sua decisione di respingere la richiesta di scarcerazione presentata dai difensori, Claudio Salvagni e Silvia Gazzetti. Per il gip il carpetiere deve rimanere in cella anche perché potrebbe uccidere ancora.

Il dna di Bossetti su Yara. La relazione del Ris e quella dell’antropologa forense Cristina Cattaneo ammettono la «difficoltà oggettiva» dell’esame su un corpo rimasto esposto alle intemperie per tre mesi. Com’è possibile, chiedeva la difesa, che in un quadro generale di consunzione, si siano mantenuti i reperti da cui è stato estratto il profilo genetico (tre macchioline di sangue)? Per il gip, invece, la traccia è di «ottima qualità, essendosi conservata grazie al tipo di indumenti su cui è stata ritrovata, i slip ed i leggings, indumenti più interni, meno esposti e quindi più protetti dagli agenti esterni che hanno agito durante il periodo in cui il corpo della ragazza è rimasto nel campo di Chignolo d’Isola». Bossetti non conosceva Yara. Il suo Dna può essere rimasto sulla ragazzina solo «al momento dell’aggressione».

La polvere di calce. Bossetti è un muratore. Secondo la relazione medico-legale firmata da Cristina Cattaneo è presente sulla cute, su alcuni indumenti ma anche (particolare contestato dai difensori) «nelle vie aeree più piccole». Yara «è entrata in contatto con tali sostanze ... nell’arco di tempo probabilmente intercorso tra l’ultimo bagno/doccia (il giorno prima secondo le testimonianze della madre) e il momento del decesso». Le sua scarpe rivelano «una concreta possibilità» di un «contatto efficace» con il suolo del campo di Chignolo e anche che vi abbiano camminato.

L’utenza cellulare di Bossetti. Il telefonino del muratore e quello di Yara agganciano, rispettivamente alle 17.45 e alle 18.49 del 26 novembre 2010, la stessa cella in via Natta a Mapello. Quella sera, era l’obiezione della difesa, si verificarono circa 12mila «agganci». La giornata del 26 novembre 2010. Yara si smaterializza attorno alle 19, all’uscita dal centro sportivo di Brembate di Sopra. Nel raccontare la sua giornata, Bossetti tiene un «comportamento incoerente». Nell’udienza di convalida, racconta di avere scorto le parabole delle televisioni mentre transitava davanti alla palestra, al ritorno dal lavoro a Palazzago. Ma le televisioni arrivarono solo giorni dopo. Davanti alle contestazioni, propone «ricostruzioni diverse e confuse». Non chiarisce le dichiarazioni del cognato Agostino Comi che ha riferito come, mentre commentavano insieme la sparizione di Yara, Bossetti gli riferì di «essere transitato nella zona e di avere notato la presenza delle forze dell’ordine». Ma l’allarme, per il gip, «non può che essere avvenuto dopo le 19.30, orario in cui Bossetti ha affermato di trovarsi già nella sua abitazione».

I difensori ripartono. Annunciano appello contro l’ordinanza che trattiene Bossetti in isolamento nella cella 4 del carcere bergamasco di via Monte Gleno. «Riteniano - dice Claudio Salvagni - che non sussistano quantomeno le esigenze cautelari. Nella sua ordinanza il gip motiva circa l’esistenza del pericolo di reiterazione del reato con delle affermazioni assolutamente laconiche e, di conseguenza, le motivazioni dell’ordinanza risultano meramente apparenti».

gabriele.moroni@ilgiorno.net