Yara, ultimo atto davanti ai giudici: Bossetti parlerà per scongiurare l’ergastolo

I difensori giocheranno ancora una carta in extremis sul Dna contestato

Massimo Bossetti (Foto Facebook)

Massimo Bossetti (Foto Facebook)

Bergamo, 30 giugno 2016 - Ha passato le sue giornate a scrivere, correggere, limare l’intervento che leggerà domani in aula, prima che la Corte si ritiri per la camera di consiglio. Sarà il suo messaggio in bottiglia, l’ultimo prima che i giudici decidano di lui. Massimo Giuseppe Bossetti proclamerà una volta di più la sua innocenza. Inviterà i giudici a non depositare sulla sua esistenza la pietra tombale dell’ergastolo, perché è consapevole che se anche dovesse essere assolto, sconterebbe la condanna a vita di vedere il suo nome associato alla tragedia di Yara Gambirasio. Si mostra fiducioso. «Spero che la verità venga a galla, spero già da adesso», è il leitmotiv di queste lunghe ore di attesa.

Domani, nell’aula dell’Assise di Bergamo, i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini giocheranno ancora una carta, consegnando ai giudici una relazione del loro consulente, il genetista Marzio Capra. Al centro, ancora una volta, il Dna rimasto sugli indumenti della vittima: quella che è l’architrave dell’accusa e che suscita invece dubbi e interrogativi nei difensori del muratore di Mapello. Sono state rispettate le linee guida internazionali? Sono stati utilizzati kit scaduti. Mancano i “contrasti”, sia positivi sia negativi. E la ripetibilità del dato scientifico? «Vogliamo dimostrare - dice Salvagni - che non c’è un solo risultato che abbia queste caratteristiche».

Considerazioni a cui aggiunge le sue Sergio Novani, docente di logica e filosofia della scienza criminale all’Istituto Alta Formazione di Chiasso, uno degli esperti del plotone di consulenti (senza precedenti nella storia processuale italiana) messo in campo dalla difesa di Bossetti. «Quella del Dna su Yara dice Novani - , quella che l’accusa chiama prova, è stata a suo tempo dichiarata nulla dal gip di Bergamo in sede di archiviazione del procedimento Fikri. Questo perché l’accertamento sul Dna era stato effettuato senza la nomina di un consulente e senza la partecipazione dei consulenti della difesa. Invece è arrivata fino ai giorni nostri con questa “macchia”. «L’altro aspetto è quello relativo alla sopravvenuta irripetibilità dell’accertamento. La Corte si dovrà domandare perché quella che viene definita “prova regina” non si sia forata nel dibattimento.

E perché sia stato permesso l’ingresso di una consulenza di parte, quella della Procura, e si sia dato credito solo a questa. I giudici dovranno chiedersi anche se c’è una responsabilità nella sopravvenuta irripetibilità degli accertamenti. E qualcuno dovrà spiegare perché il reperto (la traccia su Yara da cui è stato ricavato il Dna, ndr) è andato esaurito». Quella del Dna è una certezza granitica dell’accusa, la pietra fondante della richiesta della condanna al carcere a vita per Bossetti. «Il Dna - ha detto in aula il pubblico ministero Letizia Ruggeri - è stato il nostro faro. Abbiamo cercato e abbiamo trovato lui, Massimo Bossetti: non un pastore abruzzese, un pescatore siciliano, un extracomunitario, ma un muratore bergamasco della zona. Come ci aspettavamo». Un indizio schiacciante che traina e contestualizza gli altri: il furgone con l’“identificazione probabile” con l’Iveco Daily dell’imputato, ripreso dalle telecamere attorno al centro sportivo di Brembate di Sopra, le celle telefoniche, le tracce sulla vittima che rimandano al mondo dell’edilizia cui apparteneva l’imputato. «Gli altri indizi - ha continuato il pm - non hanno lo stesso peso del Dna, ma letti insieme rivestono caratteristiche di gravità, precisione, concordanza, tali da motivare una condanna».