Corsico, l'assassino sul buttafuori: "Dava fastidio". E uccide ancora

Corsico, l’assassino del senegalese si consegna: vent'anni fa il primo delitto

I carabinieri in via Curiel sul luogo dell'omicidio

I carabinieri in via Curiel sul luogo dell'omicidio

Corsico (Milano), 19 giugno 2018 - La compagna del killer era a due passi da lui quando ha sparato ad Assane (o Assan, come si postava su Facebook) Diallo. I colpi hanno svegliato tutto il quartiere Lavagna ma lei, Michela Falcetta, dice che non ha sentito quanti fossero: si era coperta le orecchie con le mani. Come se bastasse tapparsele per non sentire il tuono delle pallottole, schizzate a una spanna dal petto e dalla testa del senegalese. La 32enne dice di aver provato a fermare il compagno, Fabrizio Butà, 46 anni, quando ha visto che infilava la pistola dietro i pantaloni. «Ha ucciso per futili motivi», sostengono ora gli inquirenti che hanno ascoltato tutta la notte il killer. Butà si è presentato in caserma verso le 22 domenica: «So che mi state cercando», ha detto sfrontato ai militari. Indagine chiusa in meno di 24 ore e un caso del genere si può risolvere solo in un modo: conoscendo ogni angolo, citofono, marciapiede del quartiere popolare. Per questo il contributo di due marescialli è stato fondamentale: Michele Cuccuru di Trezzano e Massimo Barbato di Corsico.

I militari, guidati dal tenente Armando Laviola ci hanno messo poco a trovare l’arma e a fare arrivare il messaggio ai colpevoli in fuga: arrendetevi. E loro si sono arresi. «Sono stato io a ucciderlo. Era molesto con Miky, chiedeva soldi. E poi, quell’affronto». «Eravamo al bar Erica – ha raccontato al pm Christian Barilli – Assane mi ha fischiato e chiesto 5 euro. Michela è poi scesa a prendere le birre, mi è arrivata voce che Assane l’aveva importunata». Butà lo chiama, anche se la fidanzata nega tutto. Lei e la vittima si conoscevano: la moglie del senegalese, Olivia Evora, 48 anni, ha raccontato che spesso Assane «la portava a casa, aveva problemi in famiglia, droga e alcol». Assane conosceva bene anche il suo assassino, con cui condivideva discussioni di economia e politica, birre al bar e strisce di coca sniffate nei bagni.

«L’ho chiamato, mi ha risposto male – continua il racconto il killer, già finito in carcere nel 1998 per aver ucciso con un fucile a canne mozze Domenico Baratta a Milano, scambiandolo per un’altra persona –. Gli ho detto: procurati una pistola, io ce l’ho». L’arma la nascondeva nel seminterrato a casa della mamma di Michela, in via Curiel: attraversata la strada, è dove Assane è stato ucciso. Un vecchio locale pattumiera che la famiglia aveva chiuso con una porta. L’ha presa lì, la Beretta con la matricola abrasa e un colpo in canna, e lì l’ha riportata, nascondendola dentro un pannolino. Di fianco, una ventina di proiettili, 70 grammi di coca, pezzi di stagnola per le dosi e carte mediche di Michela.

Dopo aver giustiziato Assane, Butà è andato al parco Cabassina, ha distrutto il telefono del senegalese e si è pulito la polvere da sparo sulle mani. Ha dormito lì, con la compagna, poi si è sentito in trappola e si è presentato in caserma. Tranquillo. Lui è accusato di omicidio, lei favoreggiamento e detenzione di droga e armi. Ferocemente lucido: «L’ho ucciso io. Mi aveva offeso. E non mi pento».