Flavio Oreglio e il Cabaret ribelle: "Racconto una storia meravigliosa"

L’attore sul palco in tre puntate al Teatro della Cooperativa. Primo appuntamento domenica alle 20

Flavio Oreglio

Flavio Oreglio

Milano - Un territorio libero. Dedicato alle avanguardie. Dove si incrociavano poeti, pittori, letterati. Altro che due risate e un tormentone! E da grande cultore della materia, non poteva che essere Flavio Oreglio a raccontare la vera storia del "Cabaret", in tre puntate al Teatro della Cooperativa. Il primo appuntamento è domenica alle 20, con prezzo popolare a 10 euro. Per un racconto inedito, che poggia sui materiali dell’Archivio Storico del Cabaret Italiano, la sua creatura a Peschiera Borromeo. Intrecciando storia, aneddoti, performance. Prima del dibattito con il pubblico.

Oreglio, perché definisce il cabaret «l’arte ribelle»? "Perché è sempre stato un ricettacolo di avanguardie. Fin dalla sua origine, nel 1881 a Parigi, quando viene fondato Le Chat Noir da Rodolphe Salis, che voleva creare uno spazio dedicato all’arte non allineata. I primi performer furono alcuni poeti che stavano sperimentando nuove forme. I comici lavoravano invece nelle music-hall e nei café chantant. Erano quelli i loro palcoscenici".

Come il Moulin Rouge? "Esattamente. Le Chat Noir nasce in controtendenza. Poi, certo, sotto diversi aspetti le forme si assomigliano. Ma quello che cambia radicalmente è lo spirito, il gusto con cui si va in scena".

Oggi quando si parla di cabaret si pensa a tutt’altro. "Siamo nell’Età dell’Errore. Si crede che il genere sia legato alla comicità ma è un’idea sbagliatissima, che ha iniziato a svilupparsi intorno agli Anni 70. Ma ci sarebbe da fare un’ampia riflessione anche sul concetto di "comico",che non dovrebbe esaurirsi nella risata. E infatti non tutti quelli che fanno ridere sono comici. Si pensi solo a Gaber".

Che ruolo ha avuto il cabaret milanese? "È l’ultimo periodo prima del cambiamento. Anche se sarebbe più corretto parlare di cabaret a Milano visto che la città ospitava un fenomeno proveniente da tutta Italia. Nel Gruppo Motore di Jannacci c’erano ad esempio Cochi e Renato ma anche Lino Toffolo, Felice Andreasi, Lauzi. Alcuni locali diedero una struttura al movimento, merito di gente come Enrico Intra, Franco Nebbia e Tinin Mantegazza. Mentre sul palco si sperimentava molto nella scrittura, c’era la comicità ma anche il monologo teatrale, il gusto surreale, la canzone d’autore. La visione non era ancora fuorviante".

Poi che successe? "Iniziarono a cambiare le cose con la generazione successiva, artisti eccellenti ma diversi nello spirito: Teo Teocoli, Boldi, Abatantuono, Zuzzurro e Gaspare, Faletti".

C’è un po’ di nostalgia nelle sue parole? "No, no, voglio solo raccontare una storia meravigliosa e poco conosciuta. Provando a chiarire alcune definizioni. Sono tanti anni che faccio ricerca in questo settore, ormai sono spinto da un approccio quasi scientifico, oggettivo. Non è il mio cabaret, è quello dei documenti".

Si sente erede di quella storia? "Non posso dirlo io. E poi quando scrivo sono anche istintivo, le cose possono avere percorsi diversi. Vorrei però che nei miei lavori si percepisse quello spirito che distingue il cabaret dal varietà, dove per altro hanno lavorato grandissimi talenti. È solo una questione di differenze, non di qualità. C’è chi racconta per far ridere e chi fa ridere per raccontare".